C’è un tempo che non c’è più, un luogo che profuma di rosmarino e di infanzia, una casa che diventa simbolo di un’intera civiltà contadina, aspra e luminosa, generosa e dolente. Quel tempo e quel luogo rivivono nelle pagine de La casa del rosmarino, l’ultimo libro di Gregorio Corigliano, storico giornalista Rai e narratore di razza, che ha speso l’intera vita a raccontare la Calabria con uno sguardo autentico, profondo, affettuoso. Un Sud visto da dentro, da chi lo ha vissuto con tutte le sue contraddizioni, ma anche con il rispetto e l’amore che solo chi appartiene a quella terra può restituire.

Con la prefazione di Rosy Bindi, il libro si apre come uno scrigno di memoria e si dispiega come una lunga elegia, intima e collettiva, che attraversa la storia di una famiglia, di una casa e, con essa, di un popolo. Non è un romanzo, non è un saggio, ma qualcosa di più prezioso: un diario dell’anima, che raccoglie ricordi, volti, voci, usanze, tragedie e speranze di una Calabria arcaica, ma paradossalmente attualissima.

Corigliano ci restituisce il volto di un Sud che non esiste più, ma che continua a vivere nelle rughe dei vecchi, nei racconti tramandati, nei silenzi delle case svuotate. La sua scrittura è dolce e aspra insieme, come la terra che descrive: dalla Piana di Gioia Tauro agli aranceti di Eranova, dalle partenze per la guerra agli arrivi dei pacchi dall’“Merica”, passando per le mani screpolate dei contadini, la voce dei mandriani, la dignità ferita dei sacerdoti di campagna. È una Calabria in bianco e nero, che pure brilla di colori accesi: il verde del rosmarino, il blu del mare dello Stretto, il rosso della fatica.

L’autore parte dalla sua casa natale, costruita all’inizio del Novecento e cresciuta piano piano, stanza dopo stanza, a discapito del giardino di fiori e dei due cespugli profumati di rosmarino, che danno il titolo all’opera. È lì, tra calle, gladioli e sacrifici quotidiani, che prende forma l’epopea domestica di un’Italia minore, mai però marginale. Il padre che lavora instancabile, la madre che cura con dedizione ogni dettaglio della vita familiare, il mercato del pesce, le prime guardie militari, il ricordo di Cesena: tutto si mescola in un tessuto narrativo che è al tempo stesso personale e universale.

Ma La casa del rosmarino è anche un libro politico, nel senso più alto del termine. Senza proclami, Corigliano mette a confronto passato e presente, mostrando come i drammi di ieri – l’emigrazione, la povertà, l’assenza dei padri – si ripetano oggi con altri nomi: la fuga dei cervelli, la precarietà, la disillusione. I giovani di oggi, ci dice l’autore, sono figli di un’eredità difficile, ma anche portatori di un sogno che ha attraversato generazioni: partire per cercare fortuna, tornare con la speranza di cambiare qualcosa. Ma spesso si torna troppo tardi, o non si torna affatto.

C’è una malinconia profonda in queste pagine, ma non c’è mai rassegnazione. Corigliano non idealizza, non mitizza, ma restituisce dignità a ciò che il tempo tende a cancellare. Il Sud che racconta è vero, vivo, complesso. È un Sud che parla di tutti noi, anche a chi è nato altrove, anche a chi è salito su un treno da bambino – come ricorda un commosso passaggio autobiografico – e ha lasciato per sempre una parte di sé dietro le spalle.

Leggere La casa del rosmarino è come tornare a casa. Anche se quella casa non esiste più. Anche se l’odore del rosmarino ormai lo si sente solo nei ricordi. Gregorio Corigliano, con la delicatezza di un poeta e l’onestà di un cronista, ce la restituisce intatta. E ci invita, senza retorica, a non dimenticarla.