L’analisi

I demoni di Putin dagli abissi di Dostoevskij al cielo di Kiev

Lungo lo schermo dell'immaginario scorrono i demoni danzanti di Putin, in ritorno dagli abissi delle anime contuse e scoscese di Dostoevskij. Mentre va in scena la fragorosa solitudine di un uomo, che non riesce ad espatriare dal ventre tiranno dei suoi spettri

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di Antonella Grippo
27 febbraio 2022
11:00
Putin
Putin

In questo inverno occidentale è ora di cena quando il cielo di Ucraina lampeggia attraverso le pareti trasparenti di un calice di vinello rosso. Corpi in sequenza elettronica sull'asfalto televisivo non hanno più corpo. Siamo talmente assuefatti alla guerra su display da non riuscire a rinvenirvi alcun indizio di realtà. Reagiamo pigramente: si fa strada una sorta di astensione dei sensi.

Il canovaccio tecnologico, del resto, è- per statuto- immateriale. Consiste nella fraudolenta blandizie delle immagini che non puoi annusare. O esperire come cosa viva. E così, dentro una vorticosa "estetica della fretta" la cronaca si fa storia sorvolando il dorso della tua brevissima, concitata sigaretta. Dietro ogni bagliore rischiarante il tetto d'aria del mondo si acquatta il Mito, come ossessione di un araldico passato, che si rifiuta di trascorrere pur di tradursi in attualità addobbata a morte. Cosicché, lungo lo schermo dell'immaginario possano scorrere i dèmoni danzanti di Putin, in ritorno dagli abissi delle anime contuse e scoscese di Dostoevskij.


Riaffiora, poi, in rapidissima successione storico-temporale, lo spettro, ormai rinnegato, della rivoluzione d'Ottobre: il Corpo dismesso di Lenin. Colpevole, secondo il Vladimir dei giorni nostri, della blasfemia più ardita: quella di aver osato l'Unione delle Repubbliche Socialiste sovietiche, dopo il rovesciamento del regime zarista nel 1917. Nella visione leninista, infatti, l'Unione Sovietica doveva configurarsi come come una federazione, un reticolo orizzontale degli Stati, dal momento che il vero obiettivo non era l'egemonia di un Paese sull'altro, ma- al contrario- la diffusione del Verbo comunista nel mondo.

Lo stesso Putin, del resto, ha descritto l'Ucraina come un'invenzione architettonica di Lenin che, in quanto tale, va rimossa. Per decomunistizzare. Ad ogni modo, la mitologia cupa che accerchia Vladimir è abitata dall'effigie di Josif Stalin, mai oltraggiata, di fatto, perché simbolo di ogni eccidio a difesa della parossistica inviolabilità della Patria- Matria URSS. Putin, a tal riguardo, tratteggia il cupo paradigma della "maschietà", intesa come massima erezione espansionistica di un Potere, che "ingiunge" la guerra per proclamarsi vivo. E, tuttavia, il culto più irresistito da Putin è quello per l'impero zarista. Lo attesta lo storico Sergei Plokhj. In realtà, l'ex uomo del Kgb, di recente, ha mostrato spasmodico interesse per il Caucaso, parte integrante del perimetro di controllo, ancor prima dell'assedio del Palazzo d'Inverno. Di più: egli ha contribuito alla formazione di piccole repubbliche filo russe disconosciute dalla comunità internazionale, come l'Abcasia in Georgia o la Transnistria in Moldavia. Non solo. Vladimir, non è un mistero, ossequia il feticcio dello Zar Alessandro III: "La Russia ha due soli alleati, il suo esercito e la sua flotta".

Qui dirompe, fatalmente, la fragorosa solitudine di un uomo, che non riesce ad espatriare dal ventre tiranno dei suoi dèmoni. Una solitudine cui può alludere solo la sonorità delle armi. Lo Zar ininterrotto vive nel bunker situato a sud della palude di Psiche, fortino freudiano occidentale dell'Inconscio Universale. Lungo i cui fondali vaga ancora lo strazio di Raskolnikov per il suo "imperfetto delitto" in cerca del castigo redentivo di Fëdor.

Giornalista
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