Il senso perduto

Supercazzole e politica (o delle parole “sparlate”)

Frasi fatte e luoghi comuni guidano la dialettica inconcludente dei nostri politici. Da “democrazia partecipata” (ne esiste forse un’altra?) a “opposizione costruttiva” (cioè non romperemo le scatole) è tutto un florilegio di nonsense verbale

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di Antonella Grippo
19 aprile 2022
09:48

Pirrone, filosofo scettico della Grecia antica, essendo stato a lungo applaudito in piazza, pensò: «Devo aver detto una cazzata». Il dubbio in questione non sembra aver mai sfiorato le vivide menti di gran parte degli allegri politici nostrani, che - da tempo immemorabile - sono soliti frequentare l'arte del non senso verbale. Le parole, ormai sfrattate dalla loro dimora originaria, vengono brandite  spesso nel Palazzo alla stregua di testate nucleari. Di Big Ivan all'idrogeno in grado di sventrare tremila anni di storia del pensiero occidentale.

La pioggia di micidiali ordigni "sparlati" ci sorprende sguarniti delle più flebili difese. E se non hai un mininimo di bunker ad alta tenuta "etimologica", rischi di arrenderti persino alla più clamorosa delle panzane, meglio conosciuta come "rivoluzione normale". Al cui confronto,  ghiaccio bollente, morto vivente, attimo infinito, dolcezza amara e Ignazio La Russa ganzo sembrano ossimori sfigati. E che madonna! 


Sarebbe bastato consultare un certo Mao Tse-tung, il quale dubitava del fatto che la rivoluzione potesse risolversi in un pranzo di gala. Chi scrive dubita- più modestamente- che  possa coincidere  con una sosta prandiale al self service dell'autogrill tra Lamezia e Reggio Calabria. Del resto, "revolvere" in latino vuol dire "rovesciare". Il che descrive l'eccezionalità traumatica di un evento tutt'altro che ordinario. Si potrebbe obiettare, in verità, che il principio di non contraddizione, architrave della logica aristotelica, è da tempo materia di contesa appassionata tra i nostalgici di Eraclito (coincidentia oppositorum). Peccato che quest'ultimo risulti pressocché sconosciuto a tutto il cucuzzaro politicante. Ad ogni modo, solo Aldo Moro poteva ammanicarsi, senza colpo ferire, con la scienza ossimorica delle "convergenze parallele". Da non confondersi con la liaison catanzarese tra il prof. Donato e i Casatielli delle Libertà.

In ogni caso, se chiedi ad un elettricista, ti spiega che la Presa del Palazzo d'Inverno di Lenin non indica una ciabatta multiscart di uso domestico. Men che meno, parola di Stefano De Martino, designa l'acchiappo al volo del corpo di una ballerina nello show della Carlucci.

Non è tutto. Alle nostre latitudini, resiste da anni, indomita, un'altra perla semantica: «Bisogna mettere in campo iniziative che rispondano agli interessi dei calabresi». Dio santo, e se no di chi? Dei trattoristi della Val Seriana? Dei coltivatori umbri di barbabietole? Degli idraulici del Tavoliere delle Puglie? Non abbandoni residuali speranze il popolo ciociaro, da Subiaco a Sant'Eusebio, che potrebbe essere agevolmente della partita. Per non parlare degli sbandieratori di Cava de' Tirreni, tradizionalmente ansiosi di sfilare su una 106 jonica meno sgarrupata. Come se non bastasse, i parolettieri del Palazzo amano - da anni- riproporre l'usato sicuro della "democrazia partecipata". Come dire, scendere giù per la discesa, uscire fuori, entrare dentro, vedere con gli occhi!

Qui, l'agonìa del senso si appalesa definitivamente. Trionfa il sublime pleonasmo! E ti chiedi davvero se non sia proprio tu, cittadino fessacchiotto, a non capire una mazza di raffinatezze linguistiche. A questo punto, o molli il colpo o ti domandi se esista, al contrario, una democrazia "non partecipata" che fa più o meno il paio con l'autocrazia plurale. Certo, quella rappresentativa spesso non ti fila di striscio, se non quando ti tocca votare. Ma questa è un'altra storia.

Ad ogni modo, ci manca solo che qualcuno estragga dal cilindro la "bellezza bella" o "l'accoglienza accogliente" a proposito di mari, lune, pianure, monti e genti di Calabria. Sennonché, nella gerarchia delle cazzate spicca in pole position l'ormai arcinota "opposizione costruttiva". L'espressione non vuol dire una cippa e serve a celare l'intento di non disturbare il manovratore, come da logora consuetudine consociativa. Occorrerebbe, a tal riguardo, qualche dritta di Jacques Derrida, che di decostruzionismo s'intendeva assai. O, perché no, la consulenza di un capocantiere avveduto, esperto di murature, calcestruzzo, coccio pesto e pozzolana. Uno pratico di edilizia, insomma, che ti suggerisca come tirar giù e poi su un mansardato.

Nel novero delle insulsaggini del parlar vacante, v'è  da segnalare anche la famigerata "concertazione". Il lettore lasci ogni illusione: non si aspetti l'innesto del Tannhauser di Wagner sulle Stagioni di Vivaldi. Tantomeno, l'intreccio tra la Carmen di Bizet e L'Eroica di Beethoven. Qui, al massimo, si tratta di evitare che uno del Duo di Piadena (quasi sempre sindacalista) non stecchi nel voler ingaggiare, come Massimo Ranieri, l'ottava sopra di Perdere l'amore. Guai a chi osi sfondare note musicali impreviste. 

E non finisce qui. I cultori del politichese formato tessera hanno coniato- da decenni- pure la sublime "azione sinergica", minacciandola più volte in tv. Cos'è? L'abbraccio innaturale tra le sardelle di Corigliano e le alici di Pizzo? La tregua armata "cooperante" tra l'intellettualismo eretico di Gioacchino da Fiore e il titanico vitalismo di San Francesco da Paola? L'interazione definitiva tra cistercensi e cappuccini? L'incontro epocale tra soviet e movimenti? Inutile, allo stato, confidare in una moratoria delle parole politicanti. Cali il silenzio, intanto. Non sinergico e da opposizione distruttiva. Mentre resta sconosciuta la supercazzola, che valse una standing ovation a Pirrone, filosofo scettico dell'Elide orientale.   

Giornalista
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