La riflessione del direttore

Elezioni Calabria, dall’inadeguatezza dei candidati al disinteresse degli elettori

A due settimane dal voto possiamo fare una sintesi amara sulla campagna elettorale perché ha dimostrato che la Calabria è marginale nel dibattito politico nazionale e chi è candidato a rappresentarci non è all'altezza del compito

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di Pino Aprile
19 settembre 2021
10:13

Questa campagna elettorale cosa ci dice? Ne abbiamo vista a sufficienza (mancano due settimane e vi ricordo che si sarebbe dovuto votare il 14 febbraio), per tentare una sintesi. Potrà sembrare ingenerosa; qualcuno se la prenderà, ma virilmente ne sopporteremo il disappunto (Ennio Flaiano diceva che è meglio perdere un amico che una battuta, figurati se non sono amici e qualcuno manco lo conosci).
Sintesi amara, perché ha mostrato:
• la marginalità della Calabria negli equilibri politici nazionali (il suo è più un potere occulto);
l'inadeguatezza dei candidati e dei gruppi che li supportano;
il disinteresse degli elettori.

1 - Quelle calabresi son le sole elezioni regionali in questa tornata di amministrative; dovrebbero essere viste come un test nazionale molto più pesante del voto nei Comuni, pur se si tratta di Milano e Roma. Persino Matteo Salvini lo ha detto, chiedendosi il perché della sottovalutazione politica e giornalistica del voto calabrese. Verrebbe da dire: con quale faccia (e la battuta giusta, rileggetevi la parentesi su Flaiano, sarebbe: “La sua. Perfetta...”). Salvini è la persona più presente sui social e sulle tv: nessuno più di lui potrebbe portare la questione Calabria a livello nazionale.


La Lega, con i soldi nostri, usa come sua la seconda Rete Rai (le altre “fanno riferimento”, che raffinatezza, ad altri partiti; tradotto: fanno pagare a noi l'informazione orientata a cavoli loro). Salvini parla come se non sapesse che la Rai, la più grande azienda culturale italiana, investe a Sud (41 per cento del territorio, 34 per cento della popolazione), appena il 9-10 per cento delle sue risorse, mentre il Pun (Partito unico del Nord che va dalla Lega al Pd), pretende altri investimenti e il trasferimento di una rete Rai a Milano, e addirittura la realizzazione di un doppione degli stabilimenti romani di Saxa Rubra, con uno spreco di centinaia di milioni; e da sempre, la Rai non dedica più del 9 per cento del tempo al Mezzogiorno (bis: per il 41 per cento del territorio, e il 34 per cento della popolazione), anche se tutte le fiction di successo che la Rai rivende all'estero sono prodotte a Sud.

Incidente rivelatore della irrilevanza calabrese: nella trasmissione “di approfondimento” (e meno male!) del Tg2 “leghista”, con direttore meridionale, la ministra per il Mezzogiorno, meridionale anche lei, dimentica di elencare la Calabria fra le Regioni del Sud beneficiarie (del furto) delle risorse del Recovery Fund. Ma, sia pure tartufescamente, Salvini il tema lo pone. Gli altri nemmeno. Eppure, la cosa nota e non detta è che buona parte del potere nazionale viene deciso in Calabria, in modo occulto (logge massoniche) o criminale ('ndrangheta) o dalle une e dall'altra insieme, attraverso quelle massomafie in cui si fondono (e su cui stanno facendo luce indagini e processi a Nord e a Sud); la loro influenza si estende su tutto il Paese e condiziona buona parte dell'economia nazionale, soprattutto nelle regioni “forti”, come dimostrato anche dalle ricerche dell'università Bocconi (“soggetti segnalati per mafia” al vertice di un'azienda su sei, su un campione di 16.500).

Il potere reale della Calabria è enormemente maggiore di quello visibile, ma speso altrove, sino a linee internazionali che pur se ormai svelate, è difficile vedere dal degrado di una regione che lo Stato lascia in abbandono e a cui nega diritti elementari, dalla salute al lavoro, ai trasporti. Così, la Calabria viene considerata quasi nulla, quale parte residuale di un Sud che già tutto insieme conta pochissimo.

2 – Quello che sta per succedere (sta già succedendo) farebbe tremare i polsi a giganti del livello di Aldo Moro o Luigi Einaudi; accadde, dopo la seconda guerra mondiale, con i soldi del Piano Marshall (European Recovery Program, Erp) che valeva un diciassettesimo del Recovery Program europeo di oggi, e vide il Sud privato del risarcimento deciso dalle potenze alleate; fu sconfitto e derubato dalla bulimia padana, nonostante la strenua resistenza di grandi uomini quali don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare (Dc), che era a capo del Comitato di difesa del Mezzogiorno e la quasi eroica opposizione, nel governo, dell'allora ministro all'agricoltura Antonio Segni, poi divenuto presidente della Repubblica.

Confindustria fece quel che voleva e alle sette regioni meridionali tutte insieme fu lasciata metà di quanto razziò la sola Lombardia, mentre i veneti, allora i terroni del Nord, ebbero l'occasione (e i soldi...) per decollare e lo fecero bene, ma a spese nostre. Non si vuole offendere nessuno: ma vede qualcuno, fra i candidati alla presidenza della Calabria, fra gli attuali iper-accomodanti presidenti delle regioni del Sud (a parte qualche impuntatura del campano Vincenzo De Luca, che è riuscito persino a trainare i suoi colleghi in un paio di azioni di protesta comuni), persone in grado di compiere un'opera diciassette volte più grande di quella in cui fallirono quei giganti?

Al più, chiunque venga eletto tirerà a campare. Nei loro programmi, nelle loro dichiarazioni, non c'è nulla che faccia presagire qualcosa di buono o faccia almeno sospettare che sappiano davvero di cosa si parla. Se tutto va bene, siamo rovinati; salvo fidare nella fortuna degli incoscienti (quando i migliori ammiragli del tempo spiegarono a Enrico il Navigatore, vicerè del Portogallo, che la rotta per le Indie verso Sud, invece che verso Ovest, era impossibile, considerato il regime dei venti, lui chiamò i più cretini e dette ordine di partire. Quelli si ubriacarono e salparono, non sapendo nessuno che l'aliseo li avrebbe sospinti, la “volta pelo largo”, dal pieno Atlantico a Sud. E cambiò la storia. Il guaio è che dell’esperienza da amministrazione di alcuni candidati si ha già conoscenza. E forse avevano dimenticato che bisognava ubriacarsi, prima... Forse si deve sperare che vinca chi non ne sa niente e che il ruolo, o la fortuna, adegui all'altezza della sfida).

3 – Mi scrive un giovane e bravo collega: «Guardando le cifre e i numeri dei dibattiti politici mi viene da pensare una cosa: big nazionali che rifuggono le piazze e si racchiudono nelle salette degli hotel, pochissimi comizi pubblici e piazze semideserte, in cui ci sono più giornalisti che spettatori, dibattiti con interesse da zero virgola. Ma davvero ai calabresi interessa ancora la politica? Alle ultime elezioni quasi il 60 per cento degli elettori è rimasto a casa, e se a questi aggiungiamo chi non può votare per età o altro, a votare vanno solo tre calabresi su dieci. Chi rappresenta gli altri sette calabresi che non vanno a votare? Una volta era il partito degli scontenti, adesso però come lo chiamiamo? Questi non sono scontenti, hanno proprio perso ogni interesse. E hanno la maggioranza assoluta e qualificata». Gli assenti.

Una domanda interessante: quanti cittadini possono disertare, senza che la democrazia perda il diritto di dirsi tale, rappresentativa? Non mi azzardo a rispondere, ma la cosa ricorda una questione che si pose nell'immediato dopoguerra: Michele Mulieri, contadino anarchico di Grassano Scalo (Matera), dichiarò la secessione dall'Italia malgovernata (“mansoniata da infami, ladri e barbari” e con un “popolo balocco e scemo”); e proclamò l'indipendenza della “Repubblica dei Piani Sottani” (dal nome della contrada), nei quattromila metri quadrati di sua proprietà in cui costruì una stazione di rifornimento, rifiutando di pagare le tasse all'Italia, da cui non voleva niente e a cui niente voleva dare («Ho fatto tutto da solo, perché pagare qualcosa a voi?»); non denunciando la nascita del figlio, Guerriero Romano Antonio (fu iscritto all'anagrafe dopo anni, per sentenza del tribunale e contro la volontà del padre), opponendosi, in occasione del censimento italiano, alla conta degli abitanti della sua “Repubblica” (dopo 30 anni, 25 “pianisottanesi”, figli e nipoti), difendendosi in tribunale da solo e sorprendendo grandi giuristi per l'efficacia delle sue argomentazioni.

La faccenda, meravigliosamente narrata in “Contadini del Sud” da Rocco Scotellaro, sindaco poeta di Tricarico morto troppo giovane, assunse dimensioni da dibattito internazionale. Insomma, si chiesero costituzionalisti italiani e stranieri: si può imporre a qualcuno di essere italiano, di avere diritti che non vuole e obblighi che rifiuta? Si usciva dalla guerra contro il nazifascismo, e sui temi della libertà, della democrazia, si era molto sensibili. Ma il possesso di una estensione piccola o grande di terra può dare al possessore anche la sovranità su quella parte di un Paese già sovrano e regolato da leggi? Ma se la sovranità “appartiene al popolo”, può parte piccola o grande del popolo sottrarre la sua quota e portarsela appresso? E si fosse data questa libertà di secessione o auto-esclusione: in quanti avrebbero potuto esercitarla, prima che lo Stato perdesse il diritto di continuare a dirsi tale, esistere?

Non ridete, non era un gioco: “Ride chi non capisce e non sa”, mi diceva Michele, che ho conosciuto e su cui scrissi. Lui, con il suo linguaggio potente, immaginifico, intrattenne carteggi, da presidente a presidente, con Luigi Einaudi (che, per evitare complicazioni, di tasca sua gli pagò le tasse), con “Giovanni” (per gli altri anche Gronchi, e che lo trattò poco); ebbe scambi epistolari sulla conduzione della cosa pubblica soprattutto con le mogli dei massimi rappresentanti del Paese, da Rachele Mussolini alla signora Segni a Vittoria Leone.

Alla fine, l'Italia non piegò Michele, ma ne convinse figli e nipoti a... l'unificazione; divennero “italiani”, e lui la visse malissimo. «Non sono scemo», mi diceva. E qui mi fermo.

Ma l'interrogativo che lui pose fu molto serio e i giuristi non persero il loro tempo, anche se la risposta non fu raggiunta. Allora il Paese, il mondo uscivano da una guerra spaventosa e una colossale voglia di futuro unì quelli che erano stati tanto divisi da uccidersi; tre uomini che parlavano tedesco (De Gasperi, Adenauer, Schuman, italiano, tedesco, francese; cattolici, nati in zone di confine dei propri Paesi) posero le basi dell'Europa unita. Oggi, l'Europa mostra la stessa volontà, ma il nostro Paese ha moti e sentimenti che sono il contrario di quegli anni. Si tornava a votare, allora, alla libertà politica; oggi la sfiducia nella democrazia si misura dagli assenti. E può persino tornare comodo a chi controlla i voti, li compra con soldi, promesse, corruzione, paura.

La risposta, però, non è completamente dello stesso tipo di quella richiesta per la questione di Michele Mulieri, perché quella spettava solo ai giuristi, quest'altra può darla ognuno: quanto vi rappresenta una minoranza che può decidere per voi, grazie alla vostra assenza?

 

Giornalista
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