Tel Aviv ha approvato un’operazione che non è più guerra ma un progetto di ingegneria politica e demografica. Fame, evacuazioni, droni e silenzio internazionale da sfondo. Eppure, dietro ogni numero, ci sono volti e vite
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Palestinesi in fila per ricevere cibo e aiuti
Un bambino cammina tra le macerie con una tanica vuota in mano.
Ha i piedi nudi, il passo lento, lo sguardo fisso in avanti come se sapesse già dove non troverà acqua. Sopra di lui, un drone traccia cerchi nel cielo. In quella coreografia disegnata dall’alto e dal basso c’è l’intero destino di Gaza: la sete, il controllo, il silenzio.
L’8 agosto, a Tel Aviv, il gabinetto di sicurezza ha approvato un piano: occupare Gaza City, svuotarla, dividerla in settori, “ripulirla” casa per casa. Cinque divisioni, cinquantamila soldati, diciotto milioni di dollari al giorno. Un’operazione militare che non nasconde più il suo volto: questo non è un blitz, è un progetto di ingegneria politica e demografica.
Il linguaggio è quello, asettico, della strategia militare. “Fase uno”: conquistare il Nord, evacuare un milione di persone verso campi profughi centrali. “Fase due”: cinque anni di occupazione, due divisioni a presidiare una Striscia trasformata in arcipelago di “città-Stato”, ciascuna con un proprio governo, in modo che Hamas — o qualunque altra forma di resistenza — non possa mai più ricompattarsi. Non è guerra di giorni: è un’architettura di potere.
Eppure, dietro ogni numero, ci sono volti. I bambini che oggi, tra Khan Younis e al-Mawasi, mangiano pane secco e polvere. Le madri che aspettano in fila per una tanica d’acqua, mentre dall’alto un drone sorveglia. I vecchi che non parlano più, come se il silenzio fosse l’ultima difesa. In un video diffuso a fine luglio, l’ostaggio israeliano Evyatar David parla della sua prigionia nei tunnel sotterranei: è un volto scavato, gli occhi di chi ha visto il buio assoluto. Ma in quelle stesse gallerie, sotterranee come il dolore, ci sono anche famiglie palestinesi che non hanno più un sopra in cui vivere.
La comunità internazionale finge di sorprendersi. L’Onu chiede a Israele di “fermare immediatamente” il piano. La Cina si dice “seriamente preoccupata”. Il premier britannico Starmer lo definisce “sbagliato”. Parole, comunicati, dichiarazioni calibrate: diplomazia che non scalda e non ferma. Intanto, a Roma, cento tonnellate di aiuti umanitari partono verso Amman per essere paracadutati su Gaza: pane e medicine che cadranno dal cielo, mentre da terra si continua a sparare.
In un mondo normale, la scena basterebbe a fermare tutto: aerei che lasciano cadere pacchi di farina, mentre sotto, un popolo intero viene evacuato dalla sua città. Ma questo non è un mondo normale: è un mondo che riesce a sopportare la fame come effetto collaterale, a ignorare la parola “pulizia etnica” persino quando è pronunciata a microfono aperto, come ha fatto il ministro israeliano Bezalel Smotrich: “Stiamo cancellando lo Stato palestinese”.
C’è poi la telefonata, rivelata da NBC News, tra Netanyahu e Trump. Il primo nega la fame a Gaza. Il secondo, furioso, urla di avere le prove: bambini che muoiono di stenti. È una conversazione che sembra scritta per il teatro dell’assurdo: due leader discutono se la fame esista o meno, come se fosse una categoria ideologica e non la sensazione che ti rode lo stomaco quando non mangi da giorni.
Intanto, a Gaza, un milione di persone attende di sapere dove sarà spedito. La Convenzione di Ginevra prevede che l’“occupante” garantisca condizioni di vita “non peggiori” di quelle precedenti. Ma qui il “prima” non è ottobre 2023: è l’8 agosto 2025, il giorno in cui la nuova fase comincia. Non si promettono case, scuole, ospedali. Si promettono tende e pasti, come se la sopravvivenza biologica fosse abbastanza. Come se bastasse restare vivi per sentirsi vivi.
La strategia israeliana non è nuova: settori, evacuazioni, artiglieria, droni, fanteria, controllo del territorio. Ma il tempo, qui, è la vera arma. Cinque anni di presidio militare sono un’eternità per un bambino di sette. Significano crescere conoscendo solo check-point, colonie, posti di blocco. Significano imparare che il mondo si divide tra chi può muoversi e chi no.
Quando tutto sarà finito — se mai finirà — Gaza assomiglierà alla Cisgiordania: un mosaico di territori interrotti, collegati da strade che non sono per tutti, con un esercito che controlla l’80% del suolo. In mezzo, le “città-Stato”, ciascuna con la sua amministrazione, ciascuna isolata dall’altra. E, forse, la “Riviera di Gaza” immaginata in un video generato dall’IA e diffuso da Trump: un lungomare artificiale per turisti, costruito dove oggi ci sono macerie.
Il mondo civile — quello che si vanta di esserlo — avrà accettato tutto questo. Si dirà che era inevitabile, che la sicurezza lo imponeva, che la colpa era di Hamas. Ma basterà guardare una fotografia di questi giorni — un bambino che beve acqua da una tanica sporca, un soldato che perquisisce una donna, un drone che vola basso tra i palazzi crollati — per capire che qui non si tratta solo di politica. Si tratta di noi. Di quello che scegliamo di vedere e di quello che preferiamo ignorare.
E allora la domanda, oggi, non è se Israele conquisterà Gaza. La domanda è: quanta fame, quanta paura e quanta umiliazione siamo disposti a tollerare prima di dire basta? Perché ogni volta che un popolo viene svuotato della sua terra, noi perdiamo un pezzo della nostra umanità. E questo, nessun trattato di pace, nessuna ricostruzione potrà mai restituircelo.