C’è un uomo a terra. Non ha più volto, né età. Solo un sacchetto di farina stretto al petto. Era uscito per mangiare, è tornato per morire. Intorno a lui, il deserto della vergogna. Corpi senza nome ammassati tra le macerie, un camion umanitario mai arrivato, urla di bambini crivellate dai droni. A Gaza non si cerca più la pace: si cerca un pezzo di pane. E si muore anche per quello.

Orrore puro. Senza attenuanti, senza scuse, senza più bugie da raccontare. Qui non si tratta di “danni collaterali”, né di “colpi di avvertimento”: si spara ai civili, si spara a chi aspetta il cibo, si spara ai bambini che inseguono l’acqua con una tanica. E mentre scrivo, il conto sale: 84 morti in un solo giorno, 73 solo nei centri di distribuzione. Uccisi mentre speravano. Colpevoli solo di essere vivi.

C’è una guerra che non ha più nemici: ha solo vittime. E un governo – quello di Israele – prigioniero della propria ossessione, che ha smesso di difendersi e ha cominciato a distruggere. Non Hamas, ma un intero popolo. Un’intera civiltà.

Gaza oggi è un campo di sterminio senza filo spinato. Un carcere a cielo aperto dove si muore di fame, si prega sotto i bombardamenti, si batte il pane nella sabbia. Dove anche le chiese vengono colpite, e i parroci medicano i feriti prima ancora di celebrare messa. “Non siete dimenticati”, ha detto il cardinale Pizzaballa. Ma quanto pesa, oggi, quella parola: dimenticati?

Il Papa parla, i cardinali piangono, le diplomazie sospirano. E intanto i bambini palestinesi non sanno più cosa sia un bagno, cosa sia una scuola, cosa sia l'infanzia. Vietato nuotare, vietato pescare, vietato sognare. E noi, qui, seduti sulla nostra coscienza, guardiamo. Commentiamo. E scrolliamo. Con la mano destra firmiamo appelli, con la sinistra cambiamo canale.

Fino a quando? Fino a quando l’Occidente civile e cristiano potrà guardare altrove, mentre l’odore della carne bruciata sale da Rafah, da Deir al-Balah, da Khan Yunis? Fino a quando chiameremo “legittima difesa” l’assassinio scientifico della speranza?

A Gaza è in corso un crimine contro l’umanità. E chi tace è complice. Chi tituba, chi relativizza, chi ha paura di condannare perde un pezzo della propria umanità ogni giorno. Perché un giorno – e verrà – la storia ci chiederà conto di questo silenzio. E non ci sarà più tempo per giustificarsi.

Lo ha detto anche il cardinale Parolin: “Legittimo dubitare che il bombardamento della parrocchia sia stato un errore”. E quando anche il Vaticano – maestro del linguaggio felpato – inizia a parlare il linguaggio del dubbio, è il segnale che abbiamo superato ogni limite.

E Netanyahu? Bombarda tutto ciò che si muove. Così lo descrivono ormai anche gli alleati americani. Un leader avvelenato dalla propria agenda, che spara più per restare al potere che per difendere un confine. E intanto la sua gente scende in piazza. Migliaia di israeliani gridano “basta”, chiedono uno scambio di ostaggi, implorano tregua. Ma non basta gridare: serve fermarsi. Subito.

Io non ho risposte, né piani di pace. Ma ho occhi per vedere. E se guardo Gaza oggi, vedo solo una distesa di macerie e pianti. Un popolo che sopravvive come può, tra assedi e promesse, tra missili e sacrilegi. E ho una voce. Una voce che non accetta di tacere. Perché quando si muore aspettando un sacco di farina, non ci sono più parole da pesare, ma solo una verità da dire. Chi ama davvero la pace oggi non può essere neutrale. Chi ha memoria, chi ha coscienza, chi ha fede non può più aspettare. L’orrore non va compreso. Va fermato. Ora.