La vittoria di Napoli e le parole del nordista Centinaio aprono una riflessione sul pregiudizi storici e divisioni mai sanate all’interno della società e dell’Italia
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«Napoli terzo mondo, se perdevano c’era la guerra»: con queste parole il nordista Centinaio liquida una vittoria di popolo e la gioia di una comunità, quella meridionale, che ancora oggi è vittima di un malevolo e fastidioso pregiudizio. La reazione scomposta di Centinaio mi riporta a rileggere uno dei più grandi della letteratura medievale: Dante Alighieri.
Dante è figlio del suo tempo e per comprendere il suo pensiero politico bisogna tenere presenti le condizioni politiche, economiche e sociali di quegli anni. Ispirandosi a Tommaso d’Aquino e ad Aristotele, afferma che lo Stato appartiene all’ordine naturale e che il suo obiettivo è il perseguimento del bene comune e della felicità dei cittadini. Ma non c’è bene comune se non si realizza la giustizia, particolarmente quella sociale. Questa suppone la creazione di una società bilanciata nella distribuzione della ricchezza, nelle pari opportunità, nei privilegi e in cui siano riconosciuti e protetti i diritti di ogni individuo.
La società, ai tempi di Dante, è segnata da divisioni e contrasti violenti: la lotta tra Papato e Impero per la supremazia e le lotte intestine tra fazioni che si richiamano alle famiglie più potenti. Il nome storico che indica questo contrasto è quello tra Guelfi e Ghibellini. Guerra all’interno delle città, guerra tra città. Spargimento di sangue, esilio per chi perde. Dante stesso conosce la pena dell’esilio.
Penosa la situazione della divisione tra i diversi Stati italiani. Nel VI canto del Purgatorio, Dante, cosciente della disastrosa condizione dell’Italia, scrive un’invettiva divenuta celebre:
“Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiero in gran tempesta,
non donna di provincia, ma bordello”.
Dante paragona l’Italia del suo tempo a un vascello in balia dei flutti, incapace di trovare unità e pace per l’assenza di una guida forte e giusta.
Eppure dobbiamo aspettare il Risorgimento per una malaunità d’Italia, mala perché subita e realizzata sulle spalle dei cittadini meridionali.
Certo, la situazione odierna non è paragonabile ai tempi in cui visse Dante, ma restano ancora oggi divari, disuguaglianze e mentalità differenti. Un Sud che continua a pagare una tassa altissima: quella del pregiudizio.
Per questo serve una nuova consapevolezza. Una forza territoriale che, pur senza velleità dantesche, sappia leggere le nuove divisioni e interpretare i bisogni reali delle comunità. Che non si limiti a subire l’etichetta del “terzo mondo”, ma rivendichi con dignità il suo ruolo, la sua storia e il suo diritto al rispetto.
Perché anche oggi, come allora, senza giustizia sociale, non ci sarà mai un vero bene comune.