Mentre la narrazione dominante li vuole sempre carnefici, milioni di uomini subiscono abusi psicologici, sociali ed economici, restando senza voce nè riconoscimento. Una riflessione controcorrente su un fenomeno ignorato, ma che merita maggiore attenzione
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Recentemente Ermal Meta ha detto che si spaventa di se stesso perché dentro ogni uomo c’è un mostro. Questa affermazione del tutto delirante non è frutto unicamente del suo pensiero, essa viene da lontano, da una narrazione contemporanea distorta dove la violenza di genere ha un volto quasi esclusivamente maschile.
L’uomo, secondo l’immaginario dominante, è il carnefice, la donna la vittima. Ma cosa accade quando i ruoli si ribaltano? Quando è l’uomo a subire, e la donna ad esercitare un controllo costante, una pressione psicologica distruttiva, una violenza tanto più invisibile quanto più diffusa? La violenza di genere non riguarda solo le donne, ma anche gli uomini e non è un fenomeno marginale. Secondo una ricerca dell’Università di Siena del 2022, oltre 6 milioni di uomini ogni anno subiscono violenze da parte delle donne. Queste violenze vengono spesso sminuite perchè non sono eclatanti, ma annoverano violenze psicologiche, fisiche, economiche e sociali. Per precise scelte politiche, di questa realtà allarmante si parla poco o nulla, perché la cultura dominante, lungi dall’essere patriarcale, impone una narrazione selettiva: un uomo non può essere vittima, e se lo è, qualcosa in lui dev’essere sbagliato.
Una donna, utilizzando il suo potere all’interno della famiglia come leva, può silenziosamente tagliare l’uomo dalle sue reti relazionali, costringerlo a rinunciare ai suoi spazi, ai suoi amici, al suo tempo, alla sua libertà. Nelle mura domestiche molti uomini vivono condizioni di violenza costante, dove il controllo diventa capillare, pervasivo e spesso prevede analisi capillari sullo smartphone, pretese di trasparenza assoluta dove privacy ed identità vengono umiliate.
Se l’uomo osa opporsi a queste dinamiche distruttive e degradanti, se rivendica la sua autonomia, viene accusato di essere egoista, freddo, “narcisista”. Ecco il narcisismo è il grande inganno del nostro tempo, un inganno costruito ad arte che viene utilizzato come dispositivo mediatico di colpevolizzazione perenne dell’uomo. In questo clima da neoinquisizione, oggi basta che un uomo si prenda cura di sé, che curi la propria immagine, che non si lasci sottomettere, per essere etichettato come “narcisista patologico”.
Ma questa categoria, sempre più abusata nei talk show, nei salotti di pattume culturale pomeridiano e sui social, funziona come una forma di discredito, uno strumento programmato solo per neutralizzare l’identità maschile. Il "narcisista", in fondo, è spesso solo un uomo che non ha ubbidito, che non si è piegato. Anche il sistema dei rapporti di forza, come insegna Michel Foucault, non è mai neutro ma rispecchia i rapporti di potere di una società.
Laddove regna il femminile tossico, la violenza non si esprime solo con manifestazioni fisiche eclatanti, ma si annida in una rete invisibile di poteri che attraversano la quotidianità. Nella architettura sociale e mediatica contemporanea, i rapporti di forza sono sempre più spostati verso una rappresentazione unilaterale, dove l’uomo viene più facilmente sospettato e screditato. Questo squilibrio non nega le gravi e reali forme di violenza contro le donne, che esistono e vanno denunciate, ma oscura un’intera zona d’ombra. Una zona d’ombra dove vive una violenza nascosta.
Tra le forme più pervasive di violenze ai danni del genere maschile rientrano le false accuse di stalking e di violenza sessuale, la pressione esercitata sui figli per allontanarli dal padre separato, i ricatti di natura economica, il discredito sociale e la richiesta di mantenimento come arma di vendetta verso l’ex coniuge. Sempre nella ricerca si parla di 200 suicidi l’anno legati a dinamiche relazionali e familiari di sopraffazione psicologica, in cui l’uomo, privo di protezioni simboliche, sociali, giuridiche e affettive, preferisce sparire piuttosto che difendersi.
Un altro fenomeno diffuso è l’utilizzo delle più diverse armi di pressione psicologica che si basano sulla colpevolizzazione quotidiana, colpevolizzazione nelle cui maglie si annida la costante richiesta che la società fa all’uomo di rinunciare alla propria identità. Nella cultura del sospetto contemporaneo ogni azione è oggetto di critica sociale: un uomo che lavora molto è disattento; se guadagna di più è “troppo sicuro di sé”, se guadagna di meno è “un fallito”. Non esiste un termine unico per definire tutto questo, ma possiamo cominciare a nominarlo per quello che è: una forma di violenza sistemica, silente, subdola e diffusa, che ferisce e consuma molte più persone di quelle che si pensa.
L’uomo, inoltre, attraverso questa pressione costante viene così cancellato nella sua unicità, annullato in una morte lenta, psicologica, che si nutre del silenzio nella solitudine senza diritti, dove la violenza subita viene sminuita, dove non merita neanche di essere chiamata per nome. Il primo passo per combattere ogni forma di violenza è riconoscere la sua esistenza, farla emergere, renderla tangibile, anche quando essa è scomoda e non si adatta alla narrazione dominante. Anche quando la mano che colpisce è un’altra.