Meloni, Salvini e Tajani celebrano il 4 luglio. Il sovranismo? Dimenticato. Il patriottismo? Solo di facciata. Intanto l’Italia reale resta fuori scena, ignorata e tradita
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In un mondo politico dove la coerenza dovrebbe essere la bussola di chi guida un Paese, la destra italiana ha dimostrato ancora una volta quanto sia facile smarrirsi dietro alle luci della ribalta internazionale. Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani – i tre volti più rappresentativi del centrodestra al governo – si sono fatti ritrarre festanti alla “corte” di Donald Trump, durante la festa dell’Indipendenza degli Stati Uniti celebrata a Roma, una celebrazione che, per quanto significativa, nulla ha a che vedere con la nostra storia, con le nostre radici, con l’identità che loro stessi, a ogni piè sospinto, dicono di voler difendere.
E allora la domanda sorge spontanea: dov’è finito quel “prima gli italiani” che hanno urlato da ogni palco, scritto su ogni manifesto, brandito come uno scudo elettorale? Cos’è rimasto del sovranismo fieramente ostentato, delle bandiere tricolori sventolate contro ogni apertura, contro ogni contaminazione con l’altro? Dov’è finito quel patriottismo ostinato, che si diceva pronto a difendere la patria perfino dalle interferenze di Bruxelles?
La risposta è chiara. Si trattava soltanto di un patriottismo di facciata. Una maschera usata per raccogliere consensi nelle piazze, ma prontamente dimenticata quando il riflettore si sposta altrove, dove l’abbraccio con l’America di Trump vale più di mille dichiarazioni programmatiche. È un patriottismo da vetrina, che si decanta in patria e si svende all’estero.
La presenza di Meloni, Salvini e Tajani alla celebrazione romana del 4 luglio, non è solo simbolicamente sbagliata, è una dichiarazione politica e come tale va letta. Non si tratta di diplomazia, né di semplice cortesia internazionale. È una presa di posizione netta, ideologica, che getta la maschera su una verità già evidente da tempo: questa destra non è patriottica, è servile.
C'è un termine che si addice bene a questo comportamento: subalternità culturale. E forse è la forma più ipocrita e meschina di tradimento degli interessi nazionali. Non si può pretendere di difendere l'identità italiana e poi cercare benedizioni da un ex presidente americano divisivo, accusato di aver minato le basi democratiche del suo Paese. Non si può invocare la sovranità e poi inginocchiarsi davanti a una leadership straniera nella speranza di raccattare un po' di luce riflessa.
Questo governo, che a parole si proclama difensore dei confini, della cultura e dei valori italiani, nei fatti si comporta come un cortigiano in cerca di padrone. Un giorno a Washington, l’altro a Budapest, il terzo a Varsavia, ma mai – davvero – nei borghi dimenticati del nostro Sud, nelle fabbriche che chiudono, nei porti dove si lotta ogni giorno per sopravvivere. Lì l’Italia non c’è. Lì non si tagliano nastri né si scattano selfie. Lì non ci si può presentare festanti, come invece si può fare alla festa del 4 luglio, al piè di Trump.
Nel frattempo, tra un selfie e l'altro, un urlo da pescivendolo, comizi e parole inutili e dissennate, il Paese continua a fare i conti con stipendi stagnanti, sanità al collasso, giovani che fuggono all’estero. L’indipendenza, quella vera (economica, culturale, sociale) è lontana anni luce, mentre i suoi presunti difensori brindano in abiti eleganti sotto i fuochi d’artificio, al servizio della corte americana.
“Prima gli italiani”? Forse sarebbe più onesto dire: prima la propaganda, poi gli amici, e poi gli italiani... se avanza tempo!