Dalle origini costituzionali alle sfide contemporanee: nato per rafforzare il popolo e spesso trascurato tra pigrizia (dei cittadini) e opportunità politica. Qualche idea per riformarlo
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Negli ultimi decenni, ogni referendum nazionale in Italia è diventato un rituale dai grandi numeri sulla carta e dai risultati “minimi” nelle urne. Dietro il fallimento sistematico del quorum — la metà più uno degli aventi diritto — si nascondono sfide culturali, sociali e politiche che minano l’efficacia di uno strumento pensato per restituire voce ai cittadini, ma che troppo spesso resta inascoltata, dimenticata o strumentalizzata. È il sintomo di una democrazia che fatica a coinvolgere, a generare entusiasmo, a far sentire realmente protagonisti coloro che dovrebbero essere il cuore pulsante del sistema: i cittadini.
Il referendum fu introdotto nella Costituzione del 1946, ispirato all’esperienza svizzera e statunitense, per garantire al popolo un potere di indirizzo diretto sulle leggi. Era il simbolo di una volontà costituente chiara: evitare che il Parlamento fosse l’unico depositario del potere legislativo, riconoscendo ai cittadini la possibilità di esprimersi in prima persona.
Oggi, l’affluenza si ferma attorno al 30%, segnale di un elettorato disilluso, sfiduciato e sempre più stanco di esercitare un diritto che sembra avere un peso marginale nel dibattito pubblico. Questa crisi di fiducia è profonda e strutturale: si nutre di promesse mancate, di un sistema politico percepito come distante e autoreferenziale, e di un’informazione spesso povera, distorta o partigiana.
Tipologie di referendum in Italia
• Referendum abrogativo (art. 75 Cost.): finalizzato alla cancellazione totale o parziale di una norma vigente. È l’unico referendum previsto su iniziativa popolare, con almeno 500.000 firme o 5 Consigli regionali. È il più noto, ma anche il più fragile: la sua efficacia è spesso annullata da strategie astensionistiche.
• Referendum costituzionale (artt. 138–139 Cost.): volto a confermare o respingere modifiche alla Carta fondamentale, con quorum variabile in base all’origine parlamentare o assembleare delle leggi. In questo caso il referendum non prevede quorum se la legge non è stata approvata a maggioranza qualificata. È uno strumento più tecnico, ma cruciale nei momenti di grandi riforme.
• Referendum consultivo (dlgs. 267/2000): indetto da Regioni, Province o Comuni, non vincolante, per conoscere il parere degli abitanti su questioni di interesse locale. Spesso poco conosciuti, ma potenzialmente decisivi per le politiche territoriali. Rappresentano un’opportunità di partecipazione più vicina alle esigenze quotidiane dei cittadini.
Queste formule, pur diverse negli obiettivi e nei meccanismi, condividono un ostacolo: il quorum. Pensato per evitare derive plebiscitarie e garantire la legittimità della volontà popolare, oggi si scontra con la difficoltà crescente di mobilitare un popolo sempre più refrattario ai processi istituzionali e segnato da un profondo disincanto verso la politica. La soglia minima si è trasformata in una barriera spesso insormontabile, usata come arma contro la partecipazione stessa.
L’ultimo referendum e l’astensionismo di Stato
Nell’ultima consultazione — dedicata a questioni di lavoro e cittadinanza — si è registrato un record negativo di partecipazione. A sorprendere non è solo l’astensione dei cittadini, ma la scelta delle più alte cariche dello Stato di promuovere una vera e propria propaganda per il non voto. Un atto legittimo, ma moralmente discutibile: un vero e proprio schiaffo in faccia al senso di responsabilità delle istituzioni e al significato stesso di democrazia diretta. Mai come oggi, sembra che il silenzio delle urne faccia comodo a chi teme il risveglio della coscienza civica. È come se una parte della classe dirigente preferisse una democrazia in letargo, in cui la partecipazione è sporadica e controllabile, piuttosto che una società consapevole e attiva.
In particolare, in merito al quesito sulla cittadinanza, che prevedeva di abbassare da 10 a 5 anni il periodo di residenza in Italia per poter fare richiesta, manteneva comunque tutti i precedenti requisiti stringenti — conoscenza della lingua italiana, un lavoro stabile, un reddito dignitoso e l’assenza di precedenti penali. Non si trattava quindi di un regalo ma di giustizia, verso chi ha riposto nel nostro Paese speranze e obiettivi.
In nome di tattiche e convenienze, il mancato esercizio di un diritto si è trasformato nella negazione di un altro. È stato trattato come un optional, non come un pilastro su cui si fonda l'intero edificio democratico. Una visione pericolosa, che mina le fondamenta stesse della convivenza civile.
Il paradosso del disinteresse comune
Sui quesiti relativi al lavoro, invece, molti elettori hanno preferito restare a casa “per far dispetto” a ciò che percepivano come un’agenda della “sinistra”. Hanno delegato ad altri la decisione, convinti che andare al mare e fregarsene fosse la scelta più sovversiva. È l’espressione di un rifiuto non tanto di un singolo tema, quanto del proprio ruolo di attore politico. Un atteggiamento che si fonda sull’illusione che la neutralità sia una posizione di forza, quando in realtà è una resa silenziosa. È la rinuncia al conflitto, al confronto, alla costruzione collettiva del futuro.
Non si può tuttavia attribuire tutta la responsabilità a un “popolo pigro”, ma c’è di certo un nesso di corresponsabilità: cittadini disillusi e distratti continuano a delegare scelte che ricadranno direttamente sulle loro vite quotidiane. Sarebbe come difendere chi non paga le tasse perché “disilluso” dal sistema fiscale — e pretendere che chi, invece, rispetta le regole sopporti il carico maggiore. Il disimpegno non è mai neutro: ha sempre un effetto, e spesso favorisce proprio chi è già in posizione di potere. È una forma di privilegio passivo, che finisce per rafforzare lo status quo, proprio mentre dichiara di volerlo combattere.
Verso un referendum riformato
Per restituire vigore alla democrazia diretta, servono riforme coraggiose:
• Quorum dinamico, tarato sul numero di votanti delle ultime politiche, anziché sull’intero corpo elettorale. Un modo per rendere lo strumento realistico e in linea con la partecipazione effettiva. Una misura che non svilisce il referendum, ma lo rende più aderente alla realtà del nostro tempo.
• Tempi più lunghi per la campagna informativa, con periodi di dibattito istituzionale obbligatorio e sanzioni per chi diffonde informazioni errate. La trasparenza e la qualità dell’informazione devono diventare condizioni imprescindibili per ogni consultazione.
• Promozione multilivello, coinvolgendo scuole, università, sindacati e media locali in dibattiti imparziali e tematici. È fondamentale costruire una cultura della partecipazione, non limitarci a un’elezione ogni cinque anni. Senza educazione civica, non c’è democrazia che possa funzionare davvero.
Il referendum rimane uno strumento nobile: consente ai cittadini di intervenire su temi specifici al di fuori delle logiche di partito. Ma finché resterà ostaggio di numeri proibitivi, di tattiche di astensionismo istituzionale e di cittadini troppo inclini al disimpegno, il suo potenziale resterà inespresso. Riformare il referendum non significa sminuirlo: significa salvarlo da un declino che rischia di renderlo solo un ricordo. Significa, in ultima analisi, restituire dignità alla partecipazione democratica, all’impegno civico, al potere collettivo di incidere sul proprio destino.