Andrea Camilleri, con la voce impastata di tabacco e verità, è stato uno degli ultimi baluardi morali di questo Paese. Un letterato straordinario (1925-2019) che ci ha lasciato un'eredità intellettuale e morale di immenso valore. In un'Italia spesso divisa tra cinismo e disillusione, tra slogan e indifferenza, la sua parola arrivava come uno schiaffo gentile ma deciso.

Parlava di migranti come si parla di fratelli. Di figli. Di noi, quando eravamo noi a salire sui bastimenti, con una valigia di cartone e la speranza negli occhi. Speranza troppo spesso tradita. «Non mi capacito di come si possa restare insensibili alla vista di un bambino morto sulla riva» disse una volta, durante un’intervista. E con quella frase scorticava l'animo umano.

Nel suo libro “Ora dimmi di te - lettera a Matilda” (2018), rivolgendosi ai giovani, Camilleri raccontava della Sicilia che accoglie, che sente nelle vene il sangue africano, greco, arabo, normanno. Una terra-madre, che ha il dovere di ricordare e il coraggio di aprire le braccia. Scrisse: «La nostra storia ci impone di accogliere. Di guardare l’altro come un noi che non abbiamo ancora capito».

Per Camilleri, i migranti non erano numeri, erano storie frammentate e, soventemente, spezzate. Erano il volto della speranza che bussa, tremando, alle nostre coste. Era indignato – profondamente indignato – per la normalizzazione della morte, per la retorica della “sicurezza” usata come pietra contro i più fragili. Denunciava una società che perde la propria umanità in cambio di una finta tranquillità.

Diceva ancora: «Non c’è sicurezza più grande di sapere di essere umani». Una frase semplice, ma enorme. E oggi che le cronache riportano naufragi quotidiani, che i confini si irrigidiscono mentre le barche affondano, la voce di Camilleri manca come manca il vento in un pomeriggio immobile.

Ed io, con grande umiltà, mi interrogo. Mi chiedo cosa sia diventato questo Paese che finge di non sentire i pianti nel buio del mare. Che costruisce barriere, che alza muri invisibili tra “noi” e “loro”. Ma chi sono “loro”? Non sono forse mani come le nostre? Non hanno occhi? Non amano? Non sperano? Non fuggono, come noi fuggiremmo, se sotto casa nostra piovessero bombe o non ci fosse più pane?

Io ho visto gli sguardi dei migranti ammassati sui loro "barconi della speranza". Ho visto le foto sui giornali. Ho visto corpi stesi in fila sul bagnasciuga, e ho avuto vergogna. Vergogna di non fare abbastanza. Vergogna di vivere in un mondo dove si può ancora morire annegati per cercare vita. Ho visto i corpicini inermi dei bambini, di uomini e di donne senza vita sulla spiaggia di Steccato di Cutro, mentre cercavano di raggiungere l'Europa, con il cuore stracolmo di speranza.

Camilleri ci ha insegnato che la memoria è un atto politico, e che il cuore – se non batte per gli altri – è solo un muscolo. Ci ha lasciato il peso e l’onore della responsabilità. E oggi, guardando il Mediterraneo che inghiotte speranze, non posso che ripetere con lui: «Siamo esseri umani. E se lo siamo davvero, non possiamo più girarci dall’altra parte».

Perché ogni vita negata è una ferita nella coscienza collettiva. Perché nessun confine può giustificare l’indifferenza. Perché ogni bambino che affoga nel mare, ogni uomo che muore sotto il sole in una barca alla deriva, è una sconfitta che ci appartiene. Anche se fingiamo di non vedere. Anche se la tv non ce lo mostra più.

Ma io non voglio più voltarmi.
senza ritorno
cullati dal sale.
Un nome
mai detto
scompare nell’onda.
Restano
scarpe
e sabbia.
E un cielo
che non guarda.