Quando il centrosinistra si presenta unito, può ancora vincere. Le recenti elezioni amministrative lo hanno dimostrato: il fronte progressista ha avuto la meglio. Ma vincere non basta. È governare che fa la differenza. E se la storia insegna qualcosa, è che un centrosinistra diviso al proprio interno è condannato a implodere anche dopo una vittoria.

L’ultima figura ad aver compiuto il miracolo dell’unità fu Romano Prodi. Un professore, non un politico di professione, ma con la capacità unica di tenere insieme le forze più eterogenee. Sconfisse clamorosamente e per ben due volte l’allora invincibile Silvio Berlusconi – nel 1996 con l’Ulivo, nel 2006 con l’Unione – dimostrando che nessuno è imbattibile se esiste una coalizione coesa, pragmatica e credibile. Oggi, mentre la destra di Giorgia Meloni si rafforza, la domanda torna con urgenza: chi sarà il nuovo Prodi? E soprattutto: riuscirà il centrosinistra a non farsi vincere da se stesso?

Il nodo non è solo elettorale, ma profondamente politico e programmatico. Il centrosinistra italiano continua a essere una costellazione di sensibilità diverse, spesso inconciliabili: chi propone il salario minimo e chi vuole abolire il Reddito di cittadinanza; chi vuole rafforzare la spesa pubblica e chi predica il rigore; chi parla di transizione ecologica e chi ancora investe nella crescita tradizionale.

Il risultato? Non una coalizione, ma un’arena di differenze. Non un progetto comune, ma un fragile accordo di cartapesta. Non basta coalizzarsi per battere la destra: occorre sapere che cosa si vuole fare il giorno dopo.

Prodi, nel suo tempo, riuscì a creare un compromesso alto. Governò con i cattolici e con Rifondazione, con i liberali e con i verdi. Ma durò poco, soprattutto perché sgradito a D’Alema e a parte della sinistra. Oggi non esiste una figura che abbia quella statura di mediatore e stratega. Eppure, proprio per questo, è urgente trovarla.

L’ultimo sondaggio SWG (26 maggio 2025) mostra che il centrodestra unito vale oggi il 47,3%, mentre un ipotetico campo largo (Pd, M5s, Verdi-Sinistra, Azione, Italia Viva, +Europa) raggiunge il 49,1%. I voti ci sarebbero. Ma le divisioni restano:

Elly Schlein è leader del Pd, ma non è riconosciuta come guida dell’intera area progressista;

Giuseppe Conte ha una forza autonoma, ma i rapporti con il Pd oscillano tra diffidenza e necessità;

• la sinistra di Fratoianni e Bonelli teme l’annacquamento ideale;

• il centro riformista (Renzi,Calenda) è ostile ai 5 Stelle e spesso incompatibile con la nuova linea del Pd.

Questi sondaggi, pur favorevoli, raccontano solo una fotografia virtuale, che potrebbe dissolversi il giorno dopo le elezioni se non si costruisce un progetto politico condiviso.

Serve una figura con autorevolezza, capacità di sintesi, spirito di servizio. Qualcuno che metta fine alla guerra permanente tra correnti e personalismi. I nomi circolano:

Paolo Gentiloni: stimato a Bruxelles, rappresenta l’ala moderata e istituzionale. È però fuori dal circuito politico attivo in Italia da anni e difficilmente otterrebbe il gradimento di tutta la galassia del centro sinistra;

Giuseppe Sala: sindaco di Milano, ha esperienza e profilo da leader. Ma Milano non è l’Italia, e la sua figura non scalda ancora i cuori del Sud né della sinistra sociale;

una figura civica o imprenditoriale: suggestiva, ma rischiosa. La politica è mediazione, pazienza, conoscenza delle dinamiche parlamentari. Senza queste, anche il miglior “manager” rischia di bruciarsi.

Potrebbe anche emergere una figura nuova, ancora sottotraccia, capace di rappresentare l’Italia che lavora, che studia, che non urla. Ma per questo serve coraggio, visione, e – forse – fortuna.

Le esperienze del passato devono servire da monito. Il governo Prodi II (2006-2008) cadde non per colpa dell’opposizione, ma per le spaccature interne alla maggioranza. Se il centro-sinistra si limitasse oggi a replicare lo schema della somma aritmetica senza un progetto condiviso, rischierebbe la stessa fine: vincere e poi crollare sotto il peso delle sue contraddizioni.

Una vittoria senza una base programmatica solida porterebbe a un governo debole, esposto agli umori dei partiti e delle correnti. E Giorgia Meloni, oggi in difficoltà su alcuni fronti, tornerebbe in gioco più forte che mai, grazie agli errori altrui.

Il centrosinistra ha un’occasione storica. Il vento non soffia più solo a destra, l’Europa si interroga sul futuro, e parte dell’elettorato vuole un’alternativa. Ma senza un federatore autorevole, senza un’agenda politica chiara e condivisa, senza la volontà di superare egoismi e miopie, l’occasione sarà sprecata.

Il futuro non si costruisce con la nostalgia, ma senza una lezione da Prodi, nessun “campo largo” potrà trasformarsi in un governo vero. E allora, Meloni governerà per altri cinque anni. E la sinistra, ancora una volta, sarà sconfitta più da se stessa che dagli avversari.