Lo scontro nel centrodestra

Elezioni Calabria, a Meloni e Ferro solo le briciole da FI e Lega: FdI abbaia ma non morde

La faccia della leader di FdI è ormai bella che persa. Tajani e Spirlì avvertono che niente e nessuno potrà mettere in discussione la candidatura di Occhiuto

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di Pa. Mo.
27 luglio 2021
19:00
Tajani, Meloni e Salvini
Tajani, Meloni e Salvini

Sono passati nove giorni da quando Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, sembrava di voler fare saltare il banco nel centrodestra italiano e, in particolare, di quello calabrese, mettendo in discussione niente poco di meno che, la candidatura di Roberto Occhiuto, candidato in quota Forza Italia alla presidenza della Regione Calabria per il centrodestra. Le dichiarazioni della leader di Fratelli d'Italia facevano seguito alle tensioni scoppiate nel centrodestra per le nomine della Rai.

La Meloni, sostanzialmente, aveva reagito a quello che era stato visto, non a torto per la verità, come un abuso politico ai danni del suo partito, da parte di FI e Lega, i quali avevano fatto fuori l’unico componente di FdI nel cda della Rai. «Sono saltate le regole nel cdx», tuonò la leader di FdI. Ai malumori espressi dalla Giorgia nazionale aveva subito fatto eco, un’altra donna combattiva della destra italiana, la deputata calabrese Wanda Ferro, il cui nome più volte era stato tirato in ballo per la corsa alla Cittadella regionale. «Sono pronta a correre da sola in Calabria se il partito me lo chiede».


Insomma roba da artiglieria pesante. “Squillo di trombe, rulli di tamburi” che lasciavano presagire un imminente scontro destinato a sconvolgere il quadro politico. E, d’altronde, considerato che l’attacco era stato lanciato dal comandante in capo delle truppe di Fdi, e aveva puntato a quello che sembrava un accordo ormai passato in giudicato, la candidatura alla presidenza della Regione Calabria, tutto lasciava immaginare conseguenze pesanti. Gli analisti politici della regione siamo tutti saltati dalla sedia. Lo scontro all’interno del centrodestra era da considerarsi una novità per i notisti politici sempre concentrati sulle eterne e noiose diatribe del centrosinistra. La crisi ci era sembrata subito seria, anche perché, a dichiarare le ostilità era stata la segretaria della fratellanza nazionale in prima persona. «Oggi la candidatura di Roberto Occhiuto alla presidenza della Calabria è frutto di una delle regole che sono saltate e quindi la valutazione va fatta», tuttavia, di quel pomposo avvertimento notificato ai suoi alleati da parte di Giorgia, non sembra essere rimasto molto.

Squillo di trombe rulli di tamburi, appunto. Per onestà, bisogna dire che, alle nostre latitudini, le minacce della Ferro e della Meloni non hanno intimorito proprio nessuno né in Forza Italia né nella Lega. Nino Spirlì, ad un nostro pezzo aveva addirittura reagito con una fragorosa risata postata su Facebook. E, poche ore fa, ai nostri microfoni ha affermato: «Non c'è altra candidatura al di fuori di quella già concordata a Lamezia Terme e benedetta alla presenza di tutti i leader nazionali». Impassibili anche in Forza Italia, a cominciare dal candidato a presidente, Roberto Occhiuto, il quale, dopo le bordate della Meloni e della Ferro, non ha ritenuto nemmeno di modificare l’agenda degli impegni e delle iniziative elettorali. A dargli manforte ci ha pensato il coordinatore nazionale, Antonio Tajani: «Ci candidiamo per vincere e governare a Roma, Milano, Torino e Napoli e per vincere in Calabria con Occhiuto» che è «l'unico, vero candidato vincente del centrodestra. Noi andremo avanti nel sostenerlo». L’uno-due Spirlì/Tajani, dunque, se non è un ordine a tacere per la Meloni, per lo meno, si ispira ad un vecchio proverbio italiano: «Di minacce non temere, di promesse non godere».

Scrivevamo qualche giorno fa che, per mediare l’apparente rottura tra FdI e il resto della carovana del centrodestra, la Meloni avrebbe dovuto ottenere un lauto risarcimento politico. Tra le tante ipotesi di riconoscimento poteva esserci la candidatura alla vicepresidenza della Calabria. Insomma, una cessione di sovranità da parte della Lega. A nove giorni dalla polemica, appare chiaro, che niente di tutto ciò si è verificato. Anzi, la Meloni, si ritrova anche in difficoltà sul piano nazionale, considerato la maldestra gestione della vicenda vaccini. Il rischio per Giorgia, dunque, è quello di fare la stessa fine della Le Pen in Francia e di ritrovarsi completamente isolata. Una conventio ad excludendum, come è avvenuto in Francia per Marine Le Pen, considerato la linea ballerina di Salvini e le continue guasconate di Renzi sia con la Lega che FI, potrebbe essere dietro l’angolo. E la Meloni sa benissimo di non poterselo permettere.

La faccia della Meloni, dunque, sulla vicenda della Rai e sulla Calabria, ormai è bella che persa. Il mito della “donna tosta” della politica italiana ne esce molto ridimensionato. Evidentemente, la “faccia”, per l’erede della destra storica italiana, di quella destra che dell’onore ne fece addirittura una questione di valore, ormai deve contare poco. Mario Lavia su “L’inchiesta” scrive: «Giorgia Meloni è come quei giocatori inesperti alla roulette che puntano le loro fiches a casaccio, un po’ sul dispari, un po’ sul nero, un po’ sullo zero, un po’ sul manque: qualcosa uscirà». E qualcosa, certamente, uscirà anche per Giorgia in questa regione. Briciole rispetto al bottino di incarichi di cui faranno incetta Lega e Forza Italia ma, evidentemente, sufficienti per consentire alla Meloni e alla Ferro una veloce ritirata con la coda tra le gambe.

A questo punto, il dubbio sale prepotentemente: di quale destra risulta essere erede Giorgia Meloni? Quella irriducibile, orgogliosamente fascista, coerente, legata all’onore, e tuttavia, rappresentata dall’eloquio elegante e seduttivo di Giorgio Almirante? Oppure, Giorgia è semplicemente figlia di quella destra romana, borgatara, volgare e parolaia del defunto Teodoro Bontempo detto “er Pecora”? La destra che, per intenderci, ancora nel 94, mentre Gianfranco Fini discuteva di Viminale, di politica estera e di grandi strategie e si apprestava a salire al Governo con Berlusconi, nel Consiglio comunale di Roma menava le mani con le camicie sbottonate sui petti villosi, come scriveva Repubblica. L’una o l’altra, quelle destre, comunque, non avrebbero mai rischiato di perdere la propria faccia, con minacce da guappe di cartone come quelle espresse da Giorgia che nessuno teme nel centrodestra nostrano (nemmeno Spirlì, sic). È evidente che dell’imperativo: “io sono Giorgia”, in Calabria, non frega a nessuno.

Giornalista
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