Ha ricoperto tutti i ruoli “centrali” della politica italiana: segretario del Pds, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, europarlamentare, presidente del Copasir. È la figura perfetta per spiegare il fallimento della sinistra italiana
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Massimo D'Alema
Massimo D’Alema è uno di quei personaggi che sembrano usciti da un romanzo di Stendhal ambientato nella sinistra italiana del secondo Novecento: colto, cinico, calcolatore, raffinato quanto implacabile. Uno che ti ascolta con lo sguardo da entomologo e ti restituisce il silenzio carico di disprezzo intellettuale. Uno che ha sempre avuto ragione – almeno secondo lui – e che ha costruito la propria carriera politica più con le lotte intestine che con il consenso popolare.
Figlio del comunismo togliattiano e cresciuto nella Fgci come in un’accademia di guerra, ha attraversato tutte le trasformazioni della sinistra italiana, dall’Unità al vino rosso, dai compagni di partito alle cene di classe, senza mai perdere il gusto dell’intrigo e del comando. D’Alema è stato tutto: segretario del Pds, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, europarlamentare, presidente del Copasir. Ma non è mai stato amato. Neanche dai suoi.
A lui si attribuisce la caduta di Prodi nel 1998, quando il primo governo di centrosinistra, frutto di una coalizione complessa e fragile, venne pugnalato dopo 18 mesi. Prodi si dimise e D’Alema lo sostituì a Palazzo Chigi, primo postcomunista a guidare un governo in Italia e forse anche in Europa. Ma l’ombra del sospetto non si è mai dissolta: fu tradimento o lungimiranza machiavellica? Per i prodiani, non ci sono dubbi.
Poi c’è la saga con Walter Veltroni. L’altro “intellettuale” della sinistra, ma più telegenico, più pop, più gentile. D’Alema non sopportava quel sorriso permanente, quel “maanchismo” vago e cerchiobottista. Lo logorò a fuoco lento, da dietro le quinte, con una raffinatezza tutta sua. E Veltroni, alla fine, si dimise da segretario del PD. Un’altra vittima illustre.
Con Bersani le cose andarono diversamente. Più affinità ideologica, certo, ma nessuna vera alleanza. I rapporti furono sempre freddi, segnati da quel distacco altezzoso che D’Alema riserva anche agli alleati. E se la sinistra perse un’altra occasione storica nel 2013, c’è chi ancora oggi guarda in direzione di Gallipoli, dove il Professore si è ritirato tra viti e botti, ma non smette di tessere reti e congiure.
Perché D’Alema è l’uomo dei retroscena. L’intellettuale organico che sa tutto prima, l’ambasciatore ombra in Medio Oriente e nei salotti buoni dell’europeismo triste. Si dice abbia intessuto relazioni con diplomatici, leader stranieri, manager, editori. Dovunque c’era un intrigo, un dossier, un complotto, spuntava la sua sagoma barbuta e quel tono di voce lievemente scocciato che faceva tremare i neofiti.
Il suo è un caratteraccio leggendario. Superbo con i giornalisti, sprezzante con gli alleati, feroce con gli avversari. Non è mai stato un uomo di popolo, ma un uomo di potere. Le sue doti analitiche sono indiscutibili, così come la lucidità strategica. Ma la sua incapacità di farsi voler bene ha compromesso tutto. D’Alema è il classico intellettuale marxista che conosce Gramsci a memoria ma non sa stringere una mano senza trasmettere superiorità.
Dopo decenni di protagonismo – dal Pci al Pds, dai Ds al Pd, e poi ancora nei think tank e nei consigli strategici – D’Alema si è trovato ai margini. Un esilio dorato e autoimposto, dove il tempo del potere ha lasciato spazio alla vendemmia, ai saggi e alle interviste da oracolo disilluso. Ma chi lo conosce sa che non ha mai smesso di manovrare, parlare, influenzare.
In fondo, Massimo D’Alema è il personaggio perfetto per spiegare il fallimento della sinistra italiana: troppo intelligente per risultare popolare, troppo colto per essere pragmatico, troppo ambizioso per restare in seconda fila. E, soprattutto, troppo D’Alema per avere dei veri amici.