Uno sguardo alla rielezione di Occhiuto, alle logiche del consenso che non è una “malattia”, alla demolizione di visioni distorte e preconcette
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Ogni appuntamento elettorale, a qualsivoglia livello, ha sempre un significato politico profondo da cogliere e da interpretare. È così anche per le regionali calabresi che per la prima volta nella storia hanno confermato un presidente alla guida. Ogni scorciatoia interpretativa è da rigettare a priori, o perché banale, o peggio perché volutamente distorta e strumentale. Proprio per contribuire a restituire la necessaria profondità all’agire politico, il che è interesse primario per ogni possibile schieramento, può essere utile sgombrare il campo da cliché dannosi per tutti.
Questo concetto merita di essere adeguatamente metabolizzato da chiunque ami dedicarsi alla cosa pubblica, per costruire finalmente un contesto idoneo a selezionare il meglio, a premiare la meritocrazia, a tenere i piedi per terra senza costruire improbabili castelli in aria.
Tale introduzione propedeutica e metodologica non vuole ovviamente negare che l’intero sistema politico (nazionale, regionale, locale, di sinistra, di destra, di centro…), e ribadisco l’intero, è potenzialmente viziato da fenomeni immorali o illegali più o meno gravi: corruzione, clientelismo, scambio di voto con le mafie, parassitismo patologico, arrivismo fine a se stesso. Su questo fronte non esistono buoni e cattivi predeterminabili a tavolino, non c’è spazio per etichettature preconcette, e soprattutto bisogna lasciare alla magistratura, rispettandone l’autonomia e l’indipendenza che sono garanzia assoluta per ogni cittadino, il compito di sorvegliare, monitorare, indagare ed eventualmente sanzionare nel rispetto del dettato costituzionale e delle leggi. Ogni potenziale distorsione di questo meccanismo delicato che, per essere virtuoso e non ammalato pretende serietà di approccio e fiducia nelle istituzioni, genera fenomeni preoccupanti di disgregazione del tessuto sociale, di destrutturazione dell’architettura democratica. Quando quest’ultimo scenario diventa realtà, la prima risposta del popolo è la disaffezione, l’allontanamento, la non partecipazione al voto, l’astensionismo strutturale.
Un tempo ci si recava alle urne in massa perché, per quanto la contrapposizione dialettica fosse forte o addirittura aspra, la tensione ideale (o anche ideologica) e delle appartenenze a filoni culturali era alta: c’erano i cattolici motivati dall’impegno concreto, i democristiani, i socialisti riformisti, i comunisti, i laici liberali, la destra sociale, i radicali libertari. La gente credeva fermamente in qualcosa, anche con esagerazioni talora evidenti. Ma credeva, era guidata da princìpi tanto solidi quanto ricchi di contenuti. La falsa e ipocrita rivoluzione del 1992, determinata sia da contingenze internazionali sia da sconvolgimenti interni al Paese, ha distrutto un modello politico-democratico, peraltro disegnato dalla Costituzione Repubblicana, senza saperne generare un altro. Gli epigoni di quella fase che ha generato danni enormi, indebolendo ogni forma organizzata del consenso, per quanto difettosa e meritevole di interventi migliorativi, continuano a mestare nel torbido ed immaginano scenari che sono totalmente fuori della realtà.
L’azione di destrutturazione non ha uno specifico colore politico, ma risponde all’improvvisazione di singoli, gruppi, gruppetti, lobby che cercano nervosamente spazi, che aspirano al raggiungimento di quel potere che sembrano odiare solo a parole, che pretendono di condizionare. In un contesto del genere la cosiddetta “scorciatoia giudiziaria” appare come l’arma più letale, immediata, che non richiede i sacrifici e la costanza della politica sana, quella che ci teneva attaccati alle tv, addirittura in bianco e nero, quando parlavano Aldo Moro, Andreotti, De Mita, Berlinguer, Ingrao, Craxi, De Michelis, Almirante… In fondo si era tutti consapevoli della necessità di correttivi, anche profondi, ma l’analisi competente prevaleva sulla demagogia, sul disfattismo deteriore, sulla delegittimazione reciproca.
I luoghi comuni da sfatare sono tanti, e richiederanno più interventi. Si parta dal primo, il più ipocrita e “campanelliano”: i cosiddetti “portatori di voti”. Il Pd a Reggio ha eletto due sindaci: Giuseppe Ranuccio (Palmi) e Giuseppe Falcomatà (Reggio, il capoluogo). Sono “portatori di voti” sol perché hanno amministrato città importanti? No! Sono dei politici e amministratori che evidentemente hanno saputo aggregare consenso apprezzato dagli elettori di quell’area politica. Anche amministrando e dando riscontri ai cittadini.
Lo stesso, dall’altra parte, e solo per proporre qualche esempio possibile, può valere per l’assessore regionale uscente Giovanni Calabrese, premiato in Fratelli d’Italia, o per diversi altri del centrodestra. In politica se non lavori bene, se non rispondi al telefono, se non stai sempre vicino alla gente, se non sei umile o carismatico le preferenze non arrivano. Oppure si vuole scrivere una regola assurda in base alla quale se prendi pochi voti ti meriti la patente di onesto? E se invece proprio chi esce sconfitto dalle urne (dico per ipotesi) è stato bocciato dall’elettorato perché si è fatto solo gli affari suoi, perché ha pensato solo a se stesso o a pochi privilegiati?
Ecco perché occorre lasciare all’irrinunciabile autonomia della magistratura il compito di sorvegliare il campo da gioco, mentre la politica deve riappropriarsi in pieno della propria funzione altrettanto alta e popolare nell’accezione più nobile del termine. Un grande passo in avanti per la Calabria e per l’Italia, tutto a favore delle masse e soprattutto dei ceti meno abbienti, sarebbe quello di sgombrare il campo dall’uso strumentale della giustizia che, detto con chiarezza, è colpa di certa politica e di certi centri di potere, e non della magistratura tranne rari casi emersi negli anni come illegittimi.
Un atteggiamento più onesto e freddo merita anche il rieletto presidente Occhiuto che ha vissuto forse l’anno più difficile della sua vita. Occhiuto avrà meditato molto sulle cose positive che hanno incontrato il favore e l’apprezzamento dei cittadini, così come sugli errori da correggere e sui limiti da superare. Ha l’esperienza per farlo, partendo da una più forte spinta verso la condivisione delle scelte e la collegialità dell’alleanza che lo ha sostenuto. Ma occorre rispetto per le persone, per tutti. Perché la decisione di fare politica, o di candidarsi a sindaco, non può diventare l’inferno per se stessi e per la famiglia, non può significare la discesa nel Colosseo per combattere contro chi ti deve ammazzare, animali o gladiatori che siano. Il re è nudo! Tutti sanno che ci sono inchieste in corso la cui evoluzione, in qualsivoglia direzione, spetta solo alle silenziose prerogative di una magistratura senz’altro competente e con i Codici alla mano.
Il centrodestra calabrese avrà tanto sui cui riflettere, e così i singoli partiti che lo compongono, a partire da Fdi che ha la fortuna di essere guidata da una leader nazionale riconosciuta. Altrettanto impegno servirà al “campo largo” per ragionare sulla propria natura, sui propri confini, sul modo di proporsi come alternativa valida: le urne hanno spiegato tanto, anche in riferimento al cambiamento generale della società italiana e calabrese.
La politica è capacità di analisi, di riflessione, di interpretazione dei fatti, di costruzione virtuosa di percorsi positivi. I partiti sono indispensabili e sono un presidio di democrazia vissuta. L’antipolitica è un male da estirpare perché lascia spazio, e per tale ragione viene alimentata, alle lobby più o meno trasparenti e ai potentati di varia natura che non hanno mai in mente il bene supremo della collettività.