Intanto da fonti romane arriva la conferma che nessuno si aspettava: Alberto Stefani, 32 anni, ex sindaco di Borgoricco e oggi segretario regionale della Lega, è diventato l’uomo del momento. L’“ex bambino indaco”, come lo chiamava la sua maestra alle elementari, ha scalato il Carroccio con una velocità impressionante. Deputato dal 2018, vicesegretario federale dal 2024, presidente della commissione bicamerale sul federalismo, è ormai il nome più forte nel partito di Salvini in Veneto.

Con una sorella gemella infermiera a Verona, un passato da giocatore di pallavolo e la passione per la pittura a olio, Stefani incarna l’idea del militante modello diventato leader. A Roma dorme in una stanza presa in affitto dalle suore francescane, e nei suoi discorsi parla di «identità» come di un mantra politico: «Essere della Lega significa mettere da parte paure e rischi, percorrere la strada più difficile per difendere le proprie idee. Siamo liberi e anticonformisti». Vicinissimo a Salvini, il suo nome circola già come possibile candidato presidente della Regione, se il Veneto resterà leghista. Lui smorza: «Identità è politica locale, comunità, buona amministrazione delle risorse pubbliche. La nostra identità non si svende».

Mentre Stefani prende quota, tutta la partita politica resta nelle mani di Luca Zaia, il Doge che da mesi tiene tutti con il fiato sospeso. In Veneto, il centrosinistra non tocca palla. Il campo largo resta inchiodato alla speranza che il governatore non si candidi con una lista personale, perché in quel caso la sfida sarebbe già chiusa prima di cominciare. Zaia, amatissimo dai veneti ma prudente fino alla paralisi, continua a muoversi con passo felpato.

Dietro le quinte, Giorgia Meloni osserva. A Palazzo Chigi qualcuno ragiona già su una mossa di puro pragmatismo: sacrificare il candidato ufficiale, il meloniano Luca De Carlo, e convergere sul nome più popolare della Regione. Zaia, con il suo stile da “cacadubbi” e la scarsa propensione alla battaglia, resta comunque l’asso pigliatutto. E il centrodestra, per vincere in scioltezza, non può fare a meno di lui.

Nel frattempo, il governatore si ritaglia spazi da statista con uscite che fanno rumore. L’ultima ha fatto il giro dei giornali: Venezia e Milano come città-Stato. «Venezia città-Stato. E anche Milano», ha dichiarato, spiegando che «sarebbe un fatto di cui tutto il mondo parlerebbe. Un segno di sensibilità e attenzione per la città e un colpo comunicativo globale anche per Giorgia Meloni».

Zaia parte dal ddl su Roma Capitale per allargare lo sguardo: «Ho seguito le novità che il governo vuole introdurre per dare maggiore solidità al concetto di Roma Capitale, trasformandola in una realtà giuridica a sé. Comprendo le complessità di una metropoli che, oltre a essere capitale, ospita il Vaticano ed è una città che è storia vivente e ha uno straordinario patrimonio artistico e culturale». Poi alza l’asticella: «Certe riforme sono un treno che passa una sola volta nella vita. Sarebbe un peccato, uno spreco, non cogliere l’occasione per allargare l’orizzonte con visione innovativa».

Milano? «È una città particolare, con un ruolo e una proiezione sul mondo che avrebbero bisogno di un regime giuridico più elevato».
Venezia? Qui il Doge diventa lirico: «Non è una città del Veneto, non è italiana: è di tutti. Del mondo. Un museo a cielo aperto nel patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Ma vive anche di fragilità e specificità uniche che andrebbero trattate con una governance altrettanto specifica».

Oggi, denuncia, «maldestramente qualcuno la considera un luna park. E invece è il grande biglietto da visita di questo Paese. Come Roma, è immersa in un patrimonio storico-artistico unico, un contesto ambientale senza paragoni: non c’è persona al mondo che non speri di vedere Venezia almeno una volta nella vita. Chi pensa all’Italia, pensa immediatamente anche a Venezia».

Ecco allora il senso della sua proposta: «Dichiararla città-Stato sarebbe un gesto di grande sensibilità. E un grande valore per il governo comunicare una cosa del genere. Ne parlerebbero tutti i media del pianeta. Ci sono tante altre città a regime speciale, Berlino, Vienna, Bruxelles, e non tutte capitali: Amburgo, San Pietroburgo, le città cantonali svizzere... Ma Venezia, con la sua vita pulsante, avrebbe un valore speciale. Che io sfrutterei anche per le relazioni internazionali».

Il sogno? «Venezia ha già ospitato due G7, storicamente è sempre stata un crocevia della diplomazia. In Grecia, negli archivi, trovi innumerevoli trattati sul Mediterraneo scritti in veneto. Meloni sta facendo un lavoro straordinario in politica estera, ha dato al Paese uno standing internazionale che non aveva. Sogno che il presidente Meloni decida di fare un summit internazionale a Venezia. La città ha una carica umana ed emotiva unica: il fatto che non ci sia traffico, la laguna, il vivere nella storia... Venezia predispone alla storia».

Chi immagina un baratto politico, però, sbaglia: «Per quanto mi riguarda, l’autonomia è e resta un pilastro del programma, non possono esserci scambi su questo punto. E non prevede riforme costituzionali».

Così il Veneto resta sospeso tra il Doge prudente e il “bambino indaco” ambizioso. Nel campo largo, intanto, non resta che attendere. Perché la partita, ancora una volta, si giocherà tutta a casa di Luca Zaia.