Lega e Fratelli d’Italia non trovano la quadra. La premier punta sul suo uomo (Luca De Carlo) ma Zaia non cede: se verrà imposto un candidato da Roma, scatterà la sua lista personale. Matteo Salvini tifa per Alberto Stefani
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Il governatore Zaia e la premier Meloni
Luca Zaia ha il passo felpato e la lingua prudente dei democristiani di lungo corso, ma non rinuncia a dire le cose come stanno. Sul tavolo delle Regionali venete, che si voteranno a novembre, lo scontro è ancora lontano dall’essere risolto. Fratelli d’Italia preme per imporre il proprio candidato, la Lega vuole difendere il suo fortino più prezioso, e il governatore uscente agita l’arma più temuta: la lista personale, quella che porta il suo nome e che può spostare un fiume di voti.
Un mese fa il faccia a faccia romano tra Giorgia Meloni e il presidente veneto aveva fatto pensare a un disgelo. Invece, le posizioni sono rimaste distanti. «Vuoi piazzare il tuo candidato, Luca De Carlo, al posto mio? Bene, allora ti becchi la lista Zaia», avrebbe confidato il governatore a chi lo conosce bene. Ed è esattamente questo il nodo che fa montare la tensione dentro la coalizione: una lista con il marchio Zaia rischierebbe di svuotare i consensi di Fratelli d’Italia e persino di commissariare di fatto il futuro presidente.
Zaia non può più ricandidarsi: il terzo mandato è stato bocciato, soprattutto per la resistenza di Forza Italia. Ma resta l’uomo forte della politica veneta. «Credo sia innegabile che per il centrodestra una lista Zaia possa avere dei vantaggi», ha spiegato di recente al Corriere della Sera. Parole misurate, ma che nascondono un avvertimento: senza di lui, la coalizione rischia di perdere terreno.
Intanto Matteo Salvini, che del Veneto ha fatto da sempre il suo bastione, spinge sul giovane deputato Alberto Stefani, vicesegretario federale del Carroccio. È lui il nome che il leader leghista vorrebbe proporre come candidato ufficiale. «La corsa solitaria è nelle nostre corde, lo abbiamo già fatto e sappiamo vincere», ha detto Zaia, ricordando come la sua lista civica nel 2020 abbia contribuito a dimezzare i voti del centrosinistra. È un monito: senza l’appoggio di quel pacchetto di preferenze, la coalizione potrebbe non sfondare la soglia del 60% prevista dalla legge elettorale veneta, e la maggioranza in Consiglio regionale ne uscirebbe ridimensionata.
Giorgia Meloni, dal canto suo, non vuole rinunciare al Veneto. Dopo aver conquistato Palazzo Chigi e piazzato uomini ovunque, il partito della premier non controlla ancora nessuna grande regione del Nord. Il Piemonte è in mano a Forza Italia con Alberto Cirio, la Lombardia resta dominio della Lega con Attilio Fontana, e in Veneto la fiamma tricolore deve ancora affermarsi. «Il Veneto non è una bandierina – ha ricordato Zaia – è un mandato popolare che serve a dare forza a chi governa».
La premier teme che una lista Zaia oscuri il candidato ufficiale e lasci Fratelli d’Italia senza veri margini di manovra. E la tensione è arrivata a tal punto che, dentro il partito, qualcuno ha cominciato a scaricare responsabilità. La segretaria politica del ministero della Salute, Rita Di Quinzio, considerata vicina a chi ha spinto per certe scelte calate dall’alto, sarebbe finita nel mirino delle stesse sorelle Meloni, Giorgia e Arianna, che avrebbero chiesto la sua rimozione.
Zaia, nel frattempo, continua a dosare parole e mosse. «Non vorrei che qualcuno vedesse la lista come un atto di narcisismo. Io ho sempre avuto una lista civica, non un partito. Non è mai stata presente ad altre elezioni, non è una prezzemolina», ha precisato. Ma il messaggio politico resta chiaro: quella lista esiste e può essere decisiva.
Non è solo una questione veneta. Se la rottura si consumasse a Venezia, l’onda d’urto arriverebbe a Roma. Il centrodestra vive da tempo equilibri precari: Salvini non ha rinunciato a marcare la premier su autonomia e riforme istituzionali, Forza Italia vuole mantenere le sue caselle di potere, e Fratelli d’Italia non intende più giocare da comprimario nel Nord produttivo. In questo quadro, la battaglia sul Veneto diventa un banco di prova nazionale.
Zaia non si sbilancia sul suo futuro. Gli analisti lo vedono pronto a qualsiasi scenario: sindaco di Venezia, ministro di un governo tecnico, perfino presidente di Eni. Lui liquida ogni ipotesi: «L’ho letto, come lei. E nulla di più». Poi aggiunge: «Ho rinunciato a un seggio in Europa per coerenza. Lascio un Veneto che funziona, ricco di primati, senza pozzi avvelenati per chi verrà dopo di me».
Eppure il non detto pesa. Salvini lo tiene come riserva preziosa, consapevole che il Doge resta l’unico in grado di garantire alla Lega un consenso popolare che va oltre i confini del partito. Meloni lo considera invece un ostacolo, un leader che con il suo carisma personale rischia di ridimensionare il peso del partito di governo in una regione chiave.
In gioco c’è molto più di una candidatura. C’è la supremazia nel Nord, la capacità di governare i rapporti dentro la coalizione e persino la prospettiva di un equilibrio diverso a livello nazionale. In Veneto, insomma, si combatte la partita più delicata dell’autunno politico. Una partita che potrebbe decidere non solo chi guiderà la Regione, ma anche chi, tra Meloni e Salvini, avrà la leadership sul futuro del centrodestra.