Medicina solidale

Covid Reggio Calabria, la sfida in periferia del polo Ace: «Qui pochi vaccinati, manca consapevolezza»

VIDEO | Nel quartiere Arghillà da quasi un anno è in attività il presidio di medicina solidale. Un impegno prezioso sul fronte della prevenzione: «C'è chi non ha neanche il medico di base e sacrifica la propria salute perchè le spese sono insostenibili»

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di Anna Foti
28 dicembre 2021
10:40

«Arghillà, in particolare, è un universo complesso che ancora va conosciuto. Sarà possibile farlo solo restando e lavorando, al di là di progettualità contingenti, con continuità, passione, serietà e responsabilità. Questo è il nostro proposito. Così facendo, nel tempo, saremo anche in grado di offrire dei dati epidemiologici attendibili». Ne è convinto Lino Caserta, gastroenterologo e fondatore e presidente dell’Associazione Calabrese di Epatologia Ace, impegnata a promuovere sul territorio reggino i valori dell’autentica medicina di prossimità, quella pienamente accessibile, dove chi non ha prende grazie al dono di chi ha. E incalza «Intanto è necessario portare in evidenza i bisogni che qui immaginiamo essere tanti e ancora sommersi e inespressi, come la grande umanità che esiste in questi luoghi».

Arghillà, una sfida sociale e culturale prima che sanitaria

Il quartiere di Arghillà, nella zona nord di Reggio Calabria, diventa così paradigmatico per la sfida che Ace propone ai territori; una sfida che ancora prima che sanitaria è sociale e culturale e si prefigge di promuovere una medicina solidale e di prossimità, dunque incentrata non solo sulla cura e sull'intervento sui fattori rischio e sulle malattie ma anche sulla prevenzione ad ampio raggio e sull’emersione dei bisogni la cui soddisfazione è essenziale precondizione per una piena tutela della Salute. Nel caso di Arghillà dirimenti sono le questioni attinenti ai beni primari come la casa, l'ambiente, la scuola, il lavoro.


La povertà aggravata dalla pandemia

Così, come in ogni altro luogo, non si può prescindere dal superamento delle criticità relative a rifiuti, degrado, carenza idrica, alloggi popolari occupati abusivamente e abitati da interi nuclei familiari che molto spesso non sono censiti e che dunque sono invisibili, ignari di diritti e doveri. «La povertà, aggravata dalla pandemia, non è solo determinata da condizioni estreme di chi non ha un lavoro né una casa ma attanaglia anche chi con un stipendio basso rischia di dover sacrificare una prestazione sanitaria perché economicamente non sostenibile», ha ricordato Lino Caserta.

Così nei suoi 25 anni di attività Ace, dopo il Centro di medicina aperto nel 2010 in un immobile abbandonato a Pellaro, periferia Sud di Reggio Calabria, e lo studio medico presso l’università Mediterranea, da febbraio ha attivato anche il Polo di medicina di prossimità proprio nel quartiere particolarmente marginalizzato di Arghillà nord. Tutto nel contesto del più ampio progetto del Parco diffuso della Conoscenza e del Benessere, insignito lo scorso marzo di una segnalazione per il Premio Nazionale del Paesaggio da parte del Ministero della Cultura.

A Reggio il polo di medicina di prossimità in crescita

«Siamo cresciuti in termini di presenze e di offerta sanitaria in continua espansione, declinata in prestazioni in materia di Endocrinologia, Chirurgia, Dietistica, Ematologia, Gastroenterologia/Epatologia, Medicina, Ostetricia, Pediatria, Psicologia, Psichiatria, Ambulatorio delle Demenze, Terapia del Dolore, Urologia. È un polo fortemente articolato: non solo visite specialistiche ma anche la possibilità di eseguire elettrocardiogrammi nell’ambito di una sperimentazione di telemedicina in collaborazione con la comunità di Sant’Egidio, che speriamo di poter estendere anche ad altri territori dell'entroterra aspromontano. Siamo partiti con 50-60 visite. Il polo necessitava di essere conosciuto dal quartiere, abitato da persone spesso inconsapevoli dei loro bisogni sanitari e quindi anche dei loro diritti. Ma oggi ci aggiriamo su circa 150-200 visite al mese e credo che il target sia quello di 250-300 visite al mese e dunque 3500-4000 l'anno», ha spiegato Lino Caserta.

Un prezioso osservatorio che non può ancora fornire dei dati epidemiologici scientificamente validi ma che certamente, integrandosi con l’associazionismo già presente sul territorio e con il supporto di assistenti e mediatori sociali, sta dando il suo contributo ad una lettura attiva degli innumerevoli e profondi disagi che si manifestano nel mancato possesso, tra gli altri, dei documenti di riconoscimento o del codice fiscale, necessario quest'ultimo per esempio per la prenotazione per la vaccinazione anticovid.

«Pochi vaccinati perché c'è poca consapevolezza»

«Immaginiamo che il numero delle persone vaccinate siano di molto inferiore alla media, qui, e che molto pesi l'assenza di consapevolezza della possibilità e della necessità di farlo. Ma la questione non si pone solo per la vaccinazione ma per ogni altro accertamento diagnostico o terapia. Qui le tradizionali logiche sanitarie non sono valide. Esse non possono essere applicate in contesti nei quali incontriamo persone ipertese e diabetiche che, pur sapendolo, non hanno mai osservato alcuna terapia o assunto farmaci perché neppure hanno il medico di famiglia, perché non ci sono mezzi pubblici sufficienti per raggiungerlo o ancora perché non possono acquistare farmaci di fascia C. In quel caso fungiamo anche da sportello per facilitare, indirizzare e orientare verso le corrette procedure.

A volte da una visita emergono poi altri bisogni come il caso di un padre che venendo a chiedere il latte per la piccola di tre mesi, a nostra specifica domanda, ha risposto che la bambina non era stata ancora vaccinata. Bisogna fare rete e promuovere iniziative di coinvolgimento. Per esempio, in collaborazione con il Garante metropolitano per l'Infanzia e l'Adolescenza, Emanuele Mattia, e la dirigente scolastica dell'istituto Istruzione Superiore Boccioni-Fermi di Reggio Calabria, Anna Maria Cama, abbiamo lanciato uno screening per problematiche odontoiatriche e deficit visivi per adolescenti delle scuole secondarie di primo grado, su segnalazione da parte delle stesse scuole di appartenenze. In caso di necessità sarà lo stesso istituto Boccioni-Fermi a garantire protesi dentarie e occhiali senza alcun costo. 

Arghillà, dunque, richiede paradigmi completamente differenti che consentano di intercettare una domanda che non viene formulata perché non ve n'è coscienza, che permettano a coloro che restino fuori dalla sanità pubblica, per come oggi la conosciamo, di avere comunque accesso alla tutela della salute. Tali percorsi vanno costruiti nel tempo, con pazienza e alimentando sinergie con soggetti non sanitari già presenti sul territorio, come altre associazioni e il coordinamento di quartiere, e con figure professionali che ci aiutino nel dialogo con le famiglie come assistenti sociali e mediatori», ha spiegato ancora Lino Caserta.

«Polo aperto a chiunque, senza dover esibire documenti»

«Qui non chiediamo documenti e, per chi debba essere visitato, neppure chiediamo il green pass. Adottiamo tutte le altre precauzioni ma per noi conta che chiunque possa venire, soprattutto chi non può pagare e chi presso un presidio pubblico non saprebbe o non potrebbe rivolgersi. Questo è un luogo in cui praticare sanità, non alternativa a quella pubblica, ma di supporto all'interesse generale della tutela della salute e di garanzia del diritto di accesso a tale tutela. La nostra non è un'assistenza solidale, gratuita e filantropica che si propone di rimpiazzare un sistema che non funziona. Non è quello il nostro scopo. La nostra è un'attività funzionale alla prevenzione che di per sé costruisce salute, genera benessere e produce pure un certo risparmio economico», ha sottolineato Lino Caserta.

Nessun finanziamento pubblico e capacità di fare economie

«Il nostro progetto è indipendente. Non viviamo con finanziamenti pubblici e neppure li cerchiamo. Riceviamo donazioni da privati o enti che sostengono questa idea di medicina di prossimità. Chi a noi si rivolge, se può lascia un'offerta. Abbiamo spese di gestione e alcune professionalità, poche rispetto al totale, da retribuire perché la maggior parte degli operatori sanitari e non, sono volontari. Siamo circa cinquanta persone ad essere impegnate. Grazie alla generosità di tanti e alla nostra capacità di fare economie, rispetto alle risorse iniziali della fondazione Peppino Vismara di Milano, che avrebbero dovuto sostenerci per circa un anno e mezzo, sono certo che le nostre prospettive di permanenza si allungheranno fino ai prossimi due anni, avendo così il tempo di accogliere altre risorse che ci consentiranno di andare avanti ancora.

Noi vogliamo radicarci e restare in questo quartiere, dal quale troppi invece vanno via. La vera nostra forza è quella del volontariato e della gratuità della nostra opera. Questa è la nostra vera grande risorsa. Stessa filosofia riguarda le altre attività promosse da Ace sul fronte della ricerca, dell'agricoltura sociale su un terrazzamento di cinque ettari e della promozione di una cultura del benessere che non è affatto di carattere esclusivamente sanitario», ha evidenziato Lino Caserta.

Attenzione a donne, bambine e bambini

«La prima fase è stata dedicata alla sensibilizzazione e all'informazione. Dopo i primi dieci mesi - ha spiegato Francesca Altomonte, mediatrice sociale - possiamo affermare che coloro che risiedono nel quartiere sanno che ci siamo e non solo per le questioni sanitarie ma anche per le attività messe in campo per minori e donne. Qui operano professionisti in grado di accogliere e di poter rispondere ai bisogni delle persone e del territorio. La nostra interlocuzione con le donne cresce e auspichiamo di poter incrementare anche le attività con bambini e bambine. Sono tante le associazioni che prestano la loro opera volontaria in questa struttura.

Sappiamo che c'è paura di troppe domande ma in realtà qui non si chiedono documenti proprio perché ciò che per noi conta è che le persone si avvicinino e conoscano servizi e opportunità per la loro salute e il loro pieno benessere. Il centro è aperto dal lunedì al venerdì la mattina per le visite specialistiche e il pomeriggio, a volte per le visite ma prevalentemente per le attività sociali e aggregative. Ogni incontro è per noi occasione di scoperta di bisogni di cui spesso le persone non sono coscienti. Sul vaccino, per esempio, registriamo una scarsa informazione che genera paura e mancanza di consapevolezza. Sarebbe necessaria una maggiore attività di sensibilizzazione», ha concluso Francesca Altomonte, mediatrice sociale.

Giornalista
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