Il cantautore riflette sul legame tra musica e luoghi, sull’educazione attraverso i testi e sulla responsabilità di chi si esibisce davanti a una piazza: «Il luogo cambia il senso di ciò che suoni»
Tutti gli articoli di Spettacolo
PHOTO
La piazza di Villa San Giovanni vibra di attesa. Il palco del Festival è pronto, il pubblico si stringe sotto le luci, mentre l’aria di fine estate porta con sé il mormorio della gente e il profumo del mare. C’è chi è arrivato da lontano ed ha percorso molti chilometri per essere lì. Per lui. Morgan è l’ospite più atteso e, come sempre, non si muove secondo copione. Arriva senza rivelare la scaletta, lasciando intendere che sceglierà i brani solo quando sarà di fronte al pubblico. Per lui, suonare non è mai un atto preconfezionato: è un dialogo, una risposta viva a ciò che ha davanti.
«La musica è un fatto di luogo, non soltanto di genere» esordisce, con un tono che è già lezione. Spiega che il contesto modifica il senso stesso di ciò che si ascolta: «Se pensi a un concerto alla Scala, non ti aspetti un’orchestra di liscio o un gruppo rock. Il luogo è fatto anche di abitudini». Nelle sue parole c’è l’idea che il palco non sia neutro, ma parte integrante della musica. La piazza, per lui, è un luogo speciale: aperta, diretta, popolare.
Non nasconde però un certo fastidio per ciò che ha sentito prima di arrivare, che certamente non incontra il suo gusto. «Chi offre musica al pubblico deve essere serio. Non puoi dargli le prime cazzate che ti vengono in mente» afferma. È una sorta di dichiarazione di principio: la scelta di uscire di casa per ascoltare un concerto è, secondo lui, uno dei gesti più nobili che una comunità possa fare. E proprio per questo, chi sta sul palco deve avere ambizione.
Morgan insiste sul fatto che il pubblico non è una massa indistinta, ma un insieme di individui, ciascuno con la propria idea. Per lui l’ascolto, soprattutto d’insieme, è un momento di alta civiltà, persino superiore ad altre forme di aggregazione popolare. «Vedere una piazza pronta a ricevere qualcosa – dice – dovrebbe spingere l’artista a dare il meglio, a lasciare un segno».
La conversazione vira verso il tema dell’educazione musicale. Qui Morgan si accende. Ricorda i tempi dei cantautori, quando le canzoni erano dense di storie e messaggi. «Oggi nel mainstream non li trovi più. È subentrata un’omologazione». Non è un’accusa diretta solo agli artisti, ma a un sistema che definisce «rincitrullito» da logiche algoritmiche, dove il mercato degli stream e della viralità sono l’unico metro di valore.
Eppure, ribadisce, «il mercato lo fai tu a seconda di quello che gli dai». Cita Nietzsche: «Il gusto si impone». E spiega che quando sei sul palco, in una posizione che Pasolini avrebbe definito “antidemocratica”, puoi e devi orientare il gusto del pubblico. Non è questione di arroganza, ma di responsabilità culturale.
Per Morgan, il testo è l’anima della canzone. Non è solo accompagnamento musicale, ma veicolo di emozioni, idee, persino conflitti. Ricorda che un tempo una canzone poteva far ridere, piangere, far discutere, dividere le opinioni. «I testi di Gaber, di Jannacci… creavano opinione». Oggi, dice, questa dimensione si è persa, eppure è l’unica capace di fare della musica un’esperienza che duri oltre il momento dell’ascolto.
Ammette che seguire questa strada non è semplice: «Chi ci prova paga un prezzo alto». E su se stesso è lucido: «Pentito? No. Ma a volte dire certe cose non è servito a niente, se non a ricevere punizioni». L’autoironia gli permette di alleggerire il discorso: «Se potessi tornare indietro, oggi sarei presidente del Consiglio… anzi, degli Stati Uniti». Una battuta che strappa un sorriso, ma lascia intravedere quanta determinazione e quante rinunce ci siano dietro la sua carriera.
La chiacchierata con Morgan scorre tra filosofia e ironia. E lui, non come un professore in cattedra ma come compagno di banco, racconta di voler restituire alla musica il suo ruolo originario di linguaggio d’insieme. Per lui il concerto non è mai un fatto privato tra artista e fan, ma un atto pubblico, un incontro che riguarda la comunità. È per questo che difende il diritto del pubblico a ricevere musica di qualità, e l’obbligo morale dell’artista di offrirla.
Ecco, anche senza scaletta si capisce bene quale sarà la sua scelta musicale, una volta sul palco. Pianoforte, la sua voce e quella di altre migliaia. La sensazione è che, dopo parole così, ogni nota avrà un significato preciso. Un patto tra chi suona e chi ascolta, un momento in cui il luogo e la musica sanno fondersi in un’unica esperienza.