A 13 anni partì da Locri, insieme alla madre, per seguire la sua squadra del cuore. Quella che doveva essere una festa si trasformò in un incubo: «Quella tragedia non è servita a nulla perché quelle cose accadono ancora oggi»
Tutti gli articoli di Sport
PHOTO
Sono passati quarant’anni (e un giorno) dalla strage dell’Heysel, eppure il ricordo di quella tragica sera del 29 maggio 1985 continua a bruciare nella memoria collettiva degli appassionati di calcio. Quella che doveva essere una finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, allo stadio Heysel di Bruxelles, si trasformò in un incubo: 39 morti e oltre 600 feriti. Una ferita mai rimarginata.
Tra i presenti quella sera, molti calabresi tifosi della Vecchia Signora. Tra questi c’era anche Massimo Cusato, oggi musicista, allora 13enne partito da Locri, insieme a sua madre per inseguire un sogno: vedere dal vivo la sua Juventus in una finale europea.
«Convinsi mia madre a partire – scrive Cusato in un post pubblicato sui social in occasione del tragico anniversario –. Da Locri (RC) partiva un pullman con 60 persone una mini vacanza con in mezzo la partita. Entrammo all’Heysel molto presto. Io e mia mamma ci siamo posizionati al centro della gradinata del settore Z. Il nostro settore era il settore delle famiglie, della gente che non aveva nessuna intenzione di litigare ma di vedere la partita».
Quel settore, però, sarebbe diventato il triste epicentro della tragedia. Le autorità belghe avevano sistemato i tifosi juventini a pochi metri da quelli del Liverpool, divisi da semplici recinzioni metalliche. Alle 19:29, gli hooligan inglesi sfondarono le barriere e si scatenò il panico.
«In un primo momento e per qualche minuto – ricorda Cusato – , nel parapiglia, io e mia madre ci perdiamo ma dopo ci ritroviamo insieme ad un'altra persone di Locri. Come ieri sera ha ben spiegato un altro testimone (Cusato lasciato la sua tesimonianza a un programma televisivo ndr) io che ero molto piccolo per lunghi tratti non toccavo terra. Fluttuavo nell’aria spinto da questa onda umana con la difficoltà di stare aggrappato alla mano di mia madre».
Le immagini di quella sera scorrono ancora nella mente del musicista. «Riguardare quelle scene vissute in prima persona hanno riaperto una ferita molto profonda – scrive – scatenando sentimenti - nei confronti dell’Uefa, della Polizia Belga e soprattutto nei confronti dei porci Hooligans - di dolore, rabbia e odio».
Cusato, sopravvissuto per miracolo, lancia anche una riflessione sul senso stesso del calcio e della memoria. «Dal 29 maggio 1985 per me ma credo anche per molti altri, il calcio ha cessato di esistere. Pensavo che negli anni quell’evento avrebbe creato soprattutto nei tifosi della Juventus un sentimento diverso e cioè quello della promozione – nel mondo del calcio - del FairPlay tra le tifoserie. Invece quella tragedia non è servita a nulla perché quelle cose accadono ancora oggi sia nei campetti di terza categoria fino alla Serie A ma anche tra i giovanissimi con genitori che si prendono a botte».
Nel suo post, Cusato si scaglia infiine contro ogni forma di odio ultras, anche quello proveniente dalla curva juventina: «Lo slogan dei tifosi juventini “fino alla fine” io lo eliminerei perché purtroppo 39 persone lo hanno vissuto in prima persona ed io e tanti altri abbiamo rischiato la stessa sorte. In merito ai porci Hooligans e alle loro famiglie mi auguro che la vita li abbia ripagati con lo stesso dolore».