La storia

Mercure, una lotta durata 20 anni: luci e ombre della centrale che soffocava il Parco del Pollino

VIDEO | La Regione "boccia" l'impianto a biomasse, esultano gli ambientalisti che avevano sempre avversato la sua presenza su un territorio che è patrimonio Unesco. Tra gli entusiasti lo stesso presidente Occhiuto: «Un altro passo di civiltà per la Calabria»

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di Mariassunta Veneziano
2 agosto 2023
07:30

Gli ambientalisti rimasti sul piede di guerra per oltre vent’anni nel Parco del Pollino possono finalmente cantare vittoria. La Regione Calabria ha sancito la fine di un lungo incubo per quanti in tutto questo tempo avevano malsopportato la presenza della centrale a biomasse nella valle del Mercure. «Bocciata», esulta Ferdinando Laghi, consigliere regionale e vicepresidente di Isde Italia - Medici per l’Ambiente. Esulta il Wwf, che per bocca del suo referente regionale Angelo Calzone parla di «giornata storica».

Esulta perfino il presidente Roberto Occhiuto, che sui social scrive: «Non ci saranno mai più centrali a biomasse nel Parco Nazionale del Pollino. Abbiamo approvato in Giunta il Piano del Parco, ma senza deroghe. Cosa significa? Negli anni precedenti ogni volta che il Piano doveva essere approvato - nonostante in un parco nazionale non dovrebbe esserci una centrale a biomasse - veniva data una deroga e così facendo si permetteva che l’attività della centrale proseguisse. Da quest’anno no. Da quest’anno il Parco del Pollino non ospiterà mai più centrali. Un altro passo di civiltà per la Calabria».


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E un passo lo facciamo anche noi, ma indietro stavolta, per ripercorrere la travagliata storia della Valle del Mercure e di una centrale amata da alcuni e odiata da tanti.

Nel borgo

A Laino Borgo, 1.700 abitanti al confine con la Basilicata, oggi si arriva da un tratto di autostrada nuovo inaugurato a luglio 2017 dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. A dominarlo è il viadotto Italia, oggetto anch’esso di un restyling costato la vita, poco più di un anno prima, a un ragazzo di 25 anni, Adrian Miholca, precipitato nel vuoto mentre lavorava a bordo di una ruspa. Un’altezza di 260 metri che a lungo, fino al 2004, ha fatto di questo il ponte autostradale più alto d’Europa.

Un record ancora insuperato quando tutta questa storia è iniziata. Qui, in quest’angolo di Pollino famoso per il fiume Lao e le attività turistiche e sportive che attorno vi sono fiorite. Uno scorcio “curioso” lo offre il centro di Laino: un cartello, “Ponte dei lainesi caduti sul lavoro”, sul cui sfondo si staglia proprio il viadotto Italia. Ma il ponte a cui si riferisce è in realtà un pezzettino di strada a cavallo del Lao, tra la piazza intitolata al beato “di casa” Pietro Paolo Navarro e il palazzo del Comune. 

Un borgo, sì. Così si usa chiamarli adesso e in questo che la parola la porta nel nome si aggira lo stesso spettro che spaventa un po’ ovunque: lo spopolamento. Da qui, un posto come tanti dove gli abitanti diventano “anime” e quelle anime rimangono sempre più sole, molti se ne sono andati via. Perché qui non si muore solo di lavoro, si muore anche di non lavoro. E di servizi che mancano. Ma si vive, pure. Di una natura che sa offrire spettacoli mozzafiato e prodotti della terra che sanno di tutto il buono che c’è.

Non si direbbe, eppure proprio questo paesino è stato il cuore di una battaglia che si è trascinata per anni, tra polemiche, proteste, decreti autorizzativi, ricorsi e controricorsi. Il motivo sta in quell'ospite – indesiderato per alcuni, ben accetto per altri, di sicuro uno di quelli che non passano inosservati: un impianto a biomasse piantato nel cuore del Parco del Pollino, polmone verde della regione e patrimonio Unesco

Corsi e… ricorsi

Costruito negli anni Sessanta, l’impianto per la produzione di energia elettrica ha portato occupazione ma, inevitabilmente, anche inquinamento. Prima alimentato a lignite, poi a olio combustibile, nel 1997 era stato completamente dismesso. La sua storia sembrava dovesse finire lì e invece così non è stato. Nel 2000 l’Enel propone di convertire la centrale a biomasse, operazione che viene completata nel 2005 con un investimento di circa 60 milioni di euro per una potenza di 41 megawatt. La struttura che con la sua ciminiera bianca e rossa domina la località Pianette sarebbe pronta a rimettersi in moto ma si blocca un attimo dopo, incagliata in un groviglio di provvedimenti e ricorsi che hanno trascinato l’iter autorizzativo di calendario in calendario e dato via a un balletto di partenze e stop. Le attività della centrale ripartono infine nel 2016, dopo un lungo contenzioso e passano, nel 2019, dalla gestione di Enel a quella di Sorgenia

Avanti, indietro e poi ancora avanti. Perché qualcuno la centrale non l’ha mai voluta e qualcun altro invece l’ha voluta a tutti i costi. In materia di conflitti ambientali, per il territorio questa è la madre di tutte le battaglie. 

Il sì del Comune e la perizia

L’accordo tra il colosso dell’energia e il Comune di Laino Borgo, allora guidato dal sindaco Giuseppe Caterini, viene sottoscritto il 7 settembre 2009. E a leggere il testo le garanzie, tanto a livello ambientale quanto occupazionale, ci sono tutte o quasi. Per esempio, c’è scritto che Enel si sarebbe impegnata ad alimentare la centrale «esclusivamente con biomasse vergini certificate direttamente provenienti da attività di gestione forestale sostenibili» e «a privilegiare l’assunzione di personale locale con le qualifiche professionali richieste». Ma, soprattutto, si prevedeva la costituzione di un comitato tecnico-scientifico composto di «accademici di alta e riconosciuta professionalità e competenza» che si sarebbe dovuto esprimere «con perizia giurata pro-veritate» in merito «alla compatibilità territoriale dell’impianto ed alla tutela della salute e dell’ambiente».

Comitato che viene costituito e che due anni dopo dà il suo parere. Le tre perizie portano le firme di docenti universitari provenienti dagli atenei di Ferrara, Pavia e Catania, che rassicurano sui valori delle emissioni: «Rientrano entro quello che il recente dlgs 155/010 definisce “livello critico”, cioè “il livello fissato in base alle conoscenze scientifiche oltre il quale possono sussistere effetti negativi diretti su recettori quali alberi, le altre piante o gli ecosistemi naturali esclusi gli esseri umani”». Per l’uomo, spiegano i professori, «sono previsti limiti ancora più restrittivi dettati, nelle linee più generali, dall’Oms» e «tutti i dati prodotti per calcolo, confrontati con i “valori limite”, previsti dalla vigente legislazione e dall’Oms risultano largamente al di sotto del limite fiduciale inferiore». Si parla di calcoli, dunque, non di rilevazioni che ovviamente sarebbe impossibile fare su un impianto fermo. 

"La centrale uccide il Parco"

Il Comune si fida, e in cambio c’è anche un ritorno economico l'ente che si impegna a devolvere alla comunità in termini di miglioramento dei servizi e taglio delle tasse. Se questo sia o meno avvenuto non è dato sapere. In ogni caso, sull'altro lato della medaglia si agita l’ombra dell’inquinamento e dei suoi possibili effetti sulla salute. Un’ombra che mette in moto diverse manifestazioni contro la riapertura della centrale. Il 5 settembre 2009 in strada scendono quattromila persone: cittadini, rappresentanti delle amministrazioni comunali, membri di associazioni e comitati, esponenti politici e sindacali. Sullo striscione in cima al corteo si legge “La centrale uccide il Parco”.

Sorge un comitato “Pro Mercure”, al quale si contrappone, tra gli altri, il forum “Stefano Gioia”. In mezzo, nove amministrazioni comunali spalmate tra Calabria e Basilicata divise tra favorevoli e contrarie all'impianto. 

«Un parco nazionale deve fare il parco nazionale. Parliamo di un territorio che è Zona di protezione speciale dell’Unione europea e sito Unesco: qualcuno spieghi come si fa a coniugare tutto ciò con l’idea di industrializzazione», diceva allora (e non ha mai smesso) Ferdinando Laghi in qualità di portavoce del forum “Stefano Gioia”.

Tanti i rischi paventati. «La biomassa produce il particolato ultrafine, un cancerogeno certificato dallo Iarc di Lione, e i metalli pesanti che gli alberi assorbono dall’ambiente». E poi il traffico enorme di camion necessario per l’approvvigionamento, fonte di traffico oltre che di inquinamento.

In mezzo, di recente, anche un’indagine della Dda che ha acceso i riflettori sugli appetiti criminali che qui, come in altri impianti dello stesso tipo, hanno avuto di che sfamarsi grazie proprio a biomasse che, certificate come vergini, tali non erano.

«In questi lunghi anni non abbiamo mai smesso di lottare – dichiara oggi il consigliere regionale Laghi – per contrastare quella che è stata spesso definita una vergogna italiana». E la lotta, così come ogni tanto succede, ha pagato.

 

 

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