Ecco una serie di testimonianze che narrano di amori e di passioni. Questa è la seconda storia arrivata alla nostra redazione e che vi proponiamo ovviamente in forma anonima.

Se anche tu hai una storia da raccontarci scrivici a redazione@lactv. it.

La cosa più difficile, per me, era il rientro. Quelle notti dense di silenzi trattenuti e respiri sospesi, quando la chiave nella serratura sembrava troppo rumorosa, e ogni passo dentro casa un gesto colpevole. Era tardi. Sempre troppo tardi. Spesso dopo la mezzanotte.

Salivo le scale lentamente, facendo attenzione a non svegliarla. Lei si addormentava sempre sul divano, con il televisore acceso e a basso volume, avvolta in un plaid. Immersa in una quiete che mi stringeva il cuore. Mi rifugiavo in bagno per togliermi di dosso il profumo di un’altra pelle, e poi mi infilavo a letto, aspettando che lei arrivasse, fingendo un sonno che non arrivava mai subito.

Le mie fughe, due volte a settimana, talvolta di più. Erano le notti in cui andavo da lei. Il marito aveva spesso un turno di notte. Lasciando da sola una bella donna che conoscevo da tempo, amica di famiglia, sempre discreta, con la quale per anni ci eravamo scambiati messaggi leggeri, con quelle allusioni appena accennate e tanti sorrisi trattenuti. Mai oltre. Fino a quella sera.

«Perché non passi? Vorrei mostrarti un documento», mi aveva scritto. Ma il documento era solo un pretesto. Mi accolse con un sorriso morbido, due bicchieri con del whisky già versato. Una sigaretta accesa fra le dita sottili. La luce calda e soffusa dell’abat-jour gettava ombre dorate sul soggiorno. Si parlò di tutto. E poi di lui, suo marito. Medico, spesso di turno la notte in ospedale. Sempre più distante, sempre meno attento. Lei si sentiva sola. Invisibile ai suoi occhi.

Parola dopo parola, ci sfiorammo. Prima le mani. Poi un abbraccio, lungo e carico di elettricità. Un bacio. Solo uno. Ma bastava a riempire tutto il silenzio che avevamo taciuto negli anni. Eppure ci fermammo. Avevamo paura di quello che stava per nascere.

Ma la notte dopo fu diversa. E quella dopo ancora peggio. Ogni volta che lui era in ospedale, io ero lì. Il whisky, la sigaretta, i nostri corpi che si cercavano come se si fossero aspettati da sempre. Era desiderio, puro e feroce. Ci amammo su lenzuola che trattenevano i segreti. Non c’era spazio per i rimorsi in quel momento. Solo passione.

Tutto fu intenso. Proibito. E proprio per questo così tremendamente bello.

Sapevamo entrambi cosa stavamo facendo. Lei conosceva mia moglie. Io ero amico di suo marito. Ma il proibito ci avvolgeva come una carezza oscura, come una musica sussurrata all’orecchio. Ci bastava uno sguardo per tornare lì, tra quelle lenzuola, a vivere l’illusione di qualcosa che ci faceva sentire vivi e forti.

E così è andata avanti a lungo. Settimane, mesi, tanti mesi.

Finché la magia cominciò a spegnersi.

Lui non faceva più turni di notte. Gli incontri si fecero più rari. A volte ci vedevamo in un B&B, o nella mia casa al mare, quando gli impegni lo permettevano. Ma la fiamma si stava consumando. E quando tutto finì, capii che avevamo vissuto una lunga storia di pelle e sospiri. Ma non era amore.

Quello che più mi tormentava non era sempre il rientro. Tornare a casa di notte, togliere le scarpe in silenzio, evitare il cigolio delle assi del pavimento. Guardarla dormire, mia moglie, ignara, fiduciosa, ancora innamorata. E io lì, a mentire. Ogni notte.

Non era solo lei che tradivo. Era la nostra vita. Era me stesso. E se ora sono qui a raccontarlo è perché ho bisogno di confessare a qualcuno il peso del mio tradimento vigliacco.

Vigliacco come mi sentivo io lì, in quel momento – tra il silenzio della casa e il peso del mio corpo sotto le coperte – quando capivo che la vera infedeltà non era il corpo.

Era il cuore che batteva sempre troppo forte. Forse in cerca di quel perdono che non ci sarà mai.