Secondo Eurostat meno della metà dei calabresi lavora, mentre quasi uno su due è a rischio povertà ed esclusione sociale: una media peggiore si può scorgere solo nella Guyana Francese. Senza alcune visione, siamo destinati a spopolarci e scomparire
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Stazione di Paola, ore 6:54. Il treno regionale diretto a Reggio Calabria dovrebbe arrivare tra tre minuti. Sul tabellone scorrono altre destinazioni: Milano Centrale, Roma Termini, Torino Porta Nuova.
È la geografia del futuro dell’Italia: non quella disegnata sulle mappe, ma quella scritta sui biglietti di sola andata.
Sul marciapiede, un ragazzo stringe uno zaino. Indossa una giacca leggera, sufficiente per l’inverno calabrese, ma troppo fragile per il freddo del Nord. Non piange, non saluta, non si volta. In Calabria si parte così: in silenzio, come se la partenza non fosse una scelta ma un obbligo morale, l’ultimo atto dovuto verso se stessi per non restare intrappolati.
Accanto a lui nessuno aspetta di salire. Solo un binario spoglio e una regione intera che ogni giorno si svuota senza fare rumore. In Calabria, i treni non portano persone: portano via vite, energie, futuro.
Secondo Eurostat, soltanto il 48% dei calabresi tra i 20 e i 64 anni lavora, contro una media europea del 75,8%. La Calabria è l’ultima tra le 242 regioni dell’Unione europea monitorate. Non è un dato statistico: è una sentenza storica. Nessun territorio europeo, dall’allargamento a oggi, è mai stato così distante dal centro politico, economico e sociale dell’Unione.
Tra i giovani, la condanna è ancora più dura: oltre il 30% dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni è senza lavoro. Ogni anno migliaia di laureati, tecnici, operai specializzati lasciano la loro terra non per ambizione, ma per sopravvivenza. Non cercano il successo: cercano la possibilità stessa di esistere.
Negli ultimi vent’anni la Calabria ha perso più di 200.000 abitanti. Interi paesi stanno scomparendo dalla carta geografica. Le scuole chiudono perché non ci sono più bambini. Le case restano sbarrate, inghiottite dall’erba. Gli anziani restano soli: senza figli, senza medici, senza servizi. Ogni partenza è una ferita che non si rimargina, perché chi va via non torna più.
Eurostat certifica che la Calabria è seconda in Europa per rischio povertà ed esclusione sociale: 48,8%. Quasi un calabrese su due vive in una condizione di precarietà permanente. Peggio di noi, solo la Guyana francese: anche lì, come qui, periferia dimenticata di un impero che distribuisce risorse a geometria variabile.
In Calabria ci si ammala prima e si muore prima. L’aspettativa di vita è di tre anni inferiore rispetto al Nord Italia. Gli anni vissuti in buona salute sono appena 54. Solo il 13% della popolazione partecipa agli screening oncologici (in Emilia-Romagna l’adesione è del 79%).
Secondo l’indice Meridiano Sanità 2025, la sanità calabrese ha un punteggio di 3,2 su 10: ultima in Italia. Questo significa che nascere in Calabria equivale a essere cittadini di serie C. Ospedali fatiscenti, pronto soccorso senza medici, reparti chiusi. Chi può si cura altrove. Chi non può, aspetta. Aspetta di guarire o di morire, ma soprattutto di essere visto da uno Stato che ha smesso di parlare la lingua dei diritti.
E mentre tutto questo accade, la popolazione subisce, ancora una volta senza reagire, come anestetizzata. Il lamento è diventato l’unica forma di partecipazione civile.
La politica calabrese, dopo le elezioni, discute di ruoli, poltrone e riequilibri di partito e corrente. Nessuna visione sulla sanità, nessuna strategia per il lavoro, nessun piano per fermare l’emorragia demografica. Nessuna idea industriale.
Il centrodestra governa da anni. Il centrosinistra assiste, paralizzato da divisioni e analisi del voto che non generano proposte, ma solo alibi. Roberto Occhiuto ha vinto le elezioni con lo slogan “in 4 anni più che in 40”. Eppure i dati raccontano l’opposto: la Calabria non è mai stata così distante dal resto d’Italia e d’Europa. La sua ricandidatura non apre un nuovo ciclo: certifica il fallimento del precedente.
Negli ultimi trent’anni, le politiche neoliberiste e l’austerità imposta dall’Europa hanno tagliato sanità e servizi pubblici. Le regioni più deboli hanno pagato il prezzo più alto. Il libero mercato ha premiato chi era già forte, condannando il resto alla marginalità. Il Sud è diventato una colonia interna: produce forza lavoro che emigra e genera ricchezza altrove. È un trasferimento di capitale umano di massa, legalizzato e incentivato.
La Calabria è la prova vivente di un’Europa che ha smarrito la sua anima originaria: non è più un progetto di coesione, ma un acceleratore di diseguaglianze.
Possiamo ancora definirci un Paese civile se accettiamo che un’intera regione sia condannata alla marginalità strutturale? Possiamo definirci europei mentre tolleriamo che, nel cuore dell’Unione, esistano zone dove il diritto alla salute, al lavoro, all’istruzione non è garantito?
La Calabria non è un’eccezione: è uno specchio. E ciò che ci restituisce è un’immagine dolorosa: una regione incapace di progettualità, un’Italia che ha smarrito l’idea di essere nazione, un’Europa che ha dimenticato di essere comunità.
Il treno è arrivato. Il ragazzo sale, si siede accanto al finestrino. Non guarda il paesaggio: lo lascia scorrere via come si lascia andare ciò che non ti appartiene più.
Sulla banchina restano il vento e un cartello arrugginito. È l’ultimo sguardo di una terra che continua a salutare chi parte, sperando – forse contro ogni logica – che un giorno un treno non porti via un giovane, ma riporti a casa un futuro.