C’è una data che, in Calabria, non suona come un giorno di festa, ma come il rintocco di una campana a morto: il 23 dicembre 1961. Mancavano poche ore al Natale. Su un trenino delle Ferrovie Calabro-Lucane, carico di sogni, libri di scuola e pacchi regalo, viaggiavano decine di studenti e lavoratori diretti a Catanzaro. Ma il destino li aspettava sul viadotto della Fiumarella, un ponte sospeso nel vuoto che quel giorno si trasformò in un patibolo. All'improvviso, un boato di metallo strappato. Il rimorchio posteriore si stacca, deraglia e precipita per trenta metri. Settantuno vite si spensero in quel precipizio, lasciando un’intera regione nel lutto e nel terrore. Fu la più grande tragedia ferroviaria italiana del dopoguerra. Ma mentre i soccorritori scavavano tra le lamiere, un altro dramma, più silenzioso e solitario, iniziava a consumarsi. È quello di Ciro Miceli, il macchinista.

Ciro Miceli, cosentino, era l’uomo che quel giorno impugnava i comandi. In un istante, passò dall'essere un onesto lavoratore a diventare il volto del disastro. La giustizia fu rapida perché venne subito accusato di eccesso di velocità. Dissero che correva troppo, che la sua foga aveva spezzato il gancio di trazione. Ma Miceli non era un numero di matricola, era un uomo. E quell'uomo, schiacciato dal peso di settantuno fantasmi, scelse la via più disperata: la fuga. Un esodo che lo portò lontano, tra le solitudini della Russia e l’anonimato della Francia. Non era la fuga di chi non ha coscienza, ma forse quella di chi ne ha troppa e non riesce a reggerne lo sguardo. Per anni, Miceli è stato l’uomo senza volto, l’ombra che cercava di seminare un ricordo che però, come un binario morto, tornava sempre al punto di partenza. Poi, la svolta umana. La stanchezza di scappare divenne più forte della paura del carcere. Miceli tornò. Si consegnò. Espiò la sua pena non solo nelle celle, ma nel tribunale più severo: quello della sua terra.

La sua riassunzione in ferrovia, dopo la detenzione, ha il sapore amaro di una condanna perpetua. Gli restituirono il lavoro, ma non i comandi. Niente più orizzonti, niente più binari che corrono verso il futuro. Fu confinato a mansioni d'ufficio, tra scartoffie e magazzini. Immaginiamo i suoi occhi incrociare quelli dei colleghi, o peggio, quelli dei parenti delle vittime. Ogni giorno, per anni, ha dovuto timbrare il cartellino nel luogo che gli ricordava il suo fallimento, o forse la sua sfortuna. Ciro Miceli si è spento circa quindici anni fa. Se ne è andato in silenzio, portando con sé quella verità che i periti non hanno mai voluto ascoltare fino in fondo: quella di un treno vecchio, di ganci logori e di una manutenzione che all'epoca era un optional. Molti oggi lo leggono come un capro espiatorio, l’anello debole scelto per proteggere i colletti bianchi di un sistema ferroviario che faceva acqua da tutte le parti.

Oggi, a sessant’anni da quel Natale di sangue, dobbiamo avere il coraggio di guardare alla tragedia della Fiumarella con occhi nuovi. Non c’è solo il dolore atroce delle famiglie che persero i propri figli, ma c’è anche il calvario di un uomo che, pur sopravvivendo all'impatto, non è mai sceso da quel treno. Ciro Miceli è morto nel 2010, ma la sua vita si era fermata molto prima, su quel ponte maledetto. Forse, solo ora che il tempo ha sfumato i contorni della rabbia, possiamo concedergli l’ultima pietà: quella di essere ricordato come un uomo che ha pagato tutto, e forse anche di più.

*Documentarista