Il cambiamento climatico non è un’astrazione globale ma una realtà visibile. Sulle alture diminuiscono neve e acqua, i boschi soffrono e le montagne diventano il laboratorio delle sfide ambientali future tra sostenibilità e “migrazione verticale”
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Il cambiamento climatico è un fenomeno mondiale e, nel breve periodo, irreversibile. Un’affermazione netta, che tuttavia continua a generare divisioni. Oggi ci troviamo in una fase storica in cui il cambiamento climatico non è più soltanto un tema affrontato dagli studiosi, ma una evidenza empirica, osservabile nei fenomeni meteorologici estremi e nelle trasformazioni degli ecosistemi. Eppure parlarne resta, ancora, un terreno spigoloso.
Sembra ieri, ma sono trascorsi quasi quarant’anni dal Rapporto Brundtland, quando una commissione internazionale di esperti teorizzò per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile, indicando la necessità di affrontare sfide globali per rendere l’economia sempre meno impattante sul pianeta. Da allora, la domanda resta la stessa: a che punto siamo oggi?
Senza dubbio sono stati compiuti passi da gigante. La conoscenza scientifica si è ampliata e la consapevolezza collettiva, a livello globale, è cresciuta in modo significativo. Tuttavia, persistono sacche di resistenza profonde. Non si tratta soltanto di chi considera il mutamento climatico un complotto orchestrato dalle lobby delle auto elettriche, ma soprattutto di settori rilevanti del capitalismo globale che hanno forti interessi nel continuare a sostenere modelli produttivi altamente inquinanti e impattanti.
Per questo, dichiarare oggi che il cambiamento climatico è in larga parte causato dall’attività antropica continua a creare forti fratture nell’opinione pubblica mondiale. Neppure il volto limpido e determinato di una ragazza come Greta, che ha chiesto al mondo di agire per salvare il pianeta, è riuscito a scalfire in modo decisivo questa dicotomia
Eppure, a Parigi nel 2015, oltre 195 Stati si riunirono per firmare un trattato internazionale volto a mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Quello fu considerato un successo globale: più di 177 Paesi aderirono all’accordo. Successivamente, però, gli Stati Uniti hanno deciso di ritirarsi, rivendicando il diritto di continuare a inquinare secondo i propri interessi. In realtà, già allora nessuna delle grandi potenze firmatarie né dei Paesi emergenti era pienamente in linea con l’obiettivo principale. Oggi, tuttavia, l’equilibrio sembra definitivamente saltato e l’Unione Europea appare l’unica realmente intenzionata a portare avanti politiche coerenti con quell’obiettivo.
Mentre i grandi colossi dell’economia globale - Cina, Stati Uniti, Unione Europea, India, Russia e Giappone - sono responsabili da soli di circa il 67% delle emissioni globali di gas serra (dati COP27, 2021), l’Italia si colloca al ventesimo posto nel mondo per emissioni di CO₂. Una magra consolazione, che non attenua la responsabilità collettiva né l’urgenza di agire.
Al di là dei negazionismi e degli interessi delle lobby legate ai combustibili fossili, il clima del pianeta sta cambiando. Non è un’opinione, ma un dato di fatto certificato dalla comunità scientifica internazionale. Secondo l’IPCC, l’organismo scientifico delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, la temperatura media globale è già aumentata di oltre 1 grado rispetto all’era preindustriale, con un’accelerazione evidente negli ultimi decenni.
Gli effetti di questo riscaldamento sono sotto gli occhi di tutti. Le precipitazioni sono sempre meno regolari: lunghi periodi di siccità si alternano a piogge brevi, ma estremamente intense, spesso responsabili di alluvioni e dissesti idrogeologici. Eventi che, come sottolineano IPCC e Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO), sono oggi più frequenti e più violenti proprio a causa dell’aumento delle temperature.
Le montagne rappresentano uno degli ambienti più colpiti. I ghiacciai di tutto il mondo stanno arretrando a ritmi senza precedenti: negli ultimi decenni hanno perso miliardi di metri cubi di ghiaccio, una tendenza documentata da istituti scientifici internazionali e dalle Nazioni Unite. La neve cade sempre più in alto, la sua permanenza al suolo si riduce e la quota dello zero termico, anche in inverno, raggiunge altitudini un tempo impensabili.
Anche le stagioni stanno cambiando: inverni più brevi e miti, estati più lunghe e torride, primavere e autunni sempre più instabili. Un quadro coerente, che conferma quanto la scienza climatica sostiene da anni: il cambiamento climatico è già in atto e le sue conseguenze sono misurabili, soprattutto negli ecosistemi più fragili come quelli montani.
Le montagne sotto pressione: perché sono tra gli ambienti più vulnerabili
In montagna gli effetti del cambiamento climatico risultano particolarmente evidenti. Non si tratta soltanto dello scioglimento dei ghiacciai o dell’innalzamento della quota neve, ma soprattutto delle profonde ripercussioni sugli ecosistemi montani, tra i più sensibili alle variazioni climatiche. Questi ambienti si reggono su equilibri estremamente delicati, costruiti nel corso di migliaia di anni di evoluzione e adattamento a condizioni climatiche stabili.
L’accelerazione improvvisa del riscaldamento globale sta mettendo sotto pressione tali equilibri in un arco di tempo troppo breve perché le specie possano adattarsi. I segnali sono ormai inequivocabili: specie vegetali e animali modificano i propri cicli vitali, migrano verso quote più elevate o, nei casi più critici, scompaiono. Le foreste mostrano segni di stress crescente, mentre la biodiversità, che rappresenta una delle principali ricchezze della montagna, rischia di essere compromessa in modo irreversibile.
L’acqua, ad esempio, che è elemento da cui ha avuto origine la vita sul pianeta Terra, è oggi al centro di una delle sfide più delicate poste dal cambiamento climatico. In questo contesto, il ruolo delle montagne nella regolazione delle risorse idriche è fondamentale. L’accumulo di neve alle alte quote e il suo lento scioglimento alimentano fiumi, sorgenti e falde acquifere, garantendo l’approvvigionamento idrico a vaste aree del pianeta.
La compromissione di questo delicato equilibrio - dovuta alla riduzione delle nevicate e allo scioglimento accelerato dei ghiacci - innesca effetti a catena che si ripercuotono ben oltre le aree montane, colpendo anche i territori di pianura e le comunità a valle, con conseguenze su agricoltura, ecosistemi e disponibilità di acqua potabile.
A questo si aggiunge il forte aumento del rischio idrogeologico. Frane, smottamenti ed erosione del suolo sono fenomeni sempre più frequenti, favoriti da precipitazioni intense concentrate in brevi periodi e da lunghi intervalli di siccità. Il terreno, impoverito e reso più compatto dalla mancanza di umidità, perde la sua capacità di assorbire l’acqua; allo stesso tempo, foreste indebolite da stress idrico non riescono più a svolgere pienamente la loro funzione di ancoraggio del suolo attraverso l’apparato radicale.
Il risultato è un territorio più fragile, incapace di trattenere l’acqua e di reagire agli eventi estremi, con conseguenze che vanno ben oltre l’ambiente montano e mettono a rischio infrastrutture, abitazioni e comunità anche a valle. In tutto ciò, a meno che la politica globale non cambi, il paesaggio montano sarà destinato a cambiare.
Quali prospettive per le aree Montane
Eppure, nonostante questo quadro critico, emergono segnali di cambiamento. Il Rapporto Montagne Italia 2025, promosso da Uncem - Unione Nazionale dei Comuni, delle Comunità e degli Enti Montani - insieme ad altre realtà istituzionali e di ricerca, mette in evidenza un nuovo dinamismo delle aree interne e montane.
La città continua a rappresentare il principale polo di attrazione: è verso i centri urbani che, dalla rivoluzione industriale in poi, si sono diretti gli abitanti delle aree interne in cerca di lavoro, servizi, opportunità e di uno stile di vita percepito come più moderno e “centrale”. Tuttavia, accanto a questa tendenza consolidata, se ne affaccia un’altra, più recente e significativa.
Il rapporto sottolinea come le aree interne e montane non siano più soltanto territori segnati dallo spopolamento, ma potenziali laboratori di sviluppo sostenibile, alimentati da un crescente interesse per la qualità della vita, il contatto con la natura e il valore dei servizi ecosistemici. È quella che viene definita una nuova forma di “migrazione verticale”, un ritorno verso le quote più alte, spesso consapevole e motivato.
Questa dinamica, però, non può essere lasciata al caso. Perché possa trasformarsi in una reale opportunità per il Paese, è necessario sostenerla con politiche pubbliche integrate, che coinvolgano Stato, Regioni e Comuni, e con investimenti strutturali in servizi essenziali, lavoro, mobilità e connettività. Non bastano incentivi economici occasionali: servono visioni di lungo periodo, il rafforzamento delle forme associative tra enti locali e una governance capace di rendere questi territori realmente abitabili e attrattivi.
A raccontare in modo diretto questa scelta è anche Luca Mercalli, climatologo e divulgatore scientifico, che nel libro “Salire in montagna” descrive il suo personale percorso di migrazione verso l’alta quota. Un racconto lucido, che non idealizza la vita in montagna ma ne mette in luce le difficoltà concrete: dalla burocrazia ai servizi, dall’accessibilità alle rinunce quotidiane che questa scelta comporta.
Salire di quota per sfuggire agli effetti più estremi del riscaldamento globale potrebbe diventare una tendenza sempre più diffusa. Ma sarà possibile soprattutto per chi si mostrerà disposto a rinunciare alla vita brillante e vorticosa delle città, accettando un diverso equilibrio fatto di meno comodità e di un rapporto più diretto e responsabile con il territorio.
Calabria: terra di montagne
Le montagne della nostra regione sono straordinarie, con paesaggi e ambienti molto diversi tra loro. Aspromonte, Sila, Pollino e Serre, per citare solo i parchi, rappresentano oggi quattro veri e propri gioielli naturali, capaci di regalare bellezza e biodiversità alla Calabria.
Io vivo e lavoro nel Parco della Sila, e questo mi permette di osservare direttamente gli effetti già visibili del cambiamento climatico: la diminuzione delle nevicate ha ridotto i metri di neve accumulati; molte sorgenti presentano portate più basse; ma ciò che colpisce di più è lo stress dei boschi. Gli alberi soffrono, e lo si percepisce osservando i segnali non verbali della natura stessa: il colore delle foglie dei faggi non è più verde intenso e, già in autunno, sembra che entrino prematuramente in quiescenza, come forma di protezione. In altre parole, le specie vegetali reagiscono, ma in modi visibilmente preoccupanti.
In questo scenario, i parchi nazionali e regionali assumono un ruolo fondamentale. Non sono istituzioni create per “imbalsamare” la natura, ma veri e propri motori di sviluppo sostenibile. Promuovono un modello di crescita rispettoso dell’ambiente, tutelando la biodiversità e garantendo al contempo che le risorse naturali possano essere fruite in modo corretto e duraturo. Allo stesso tempo, i parchi diventano attrattori per chi cerca il contatto con la natura, favorendo la diffusione di un approccio più consapevole e sostenibile. Il concetto di biofilia, coniato dallo psicologo e sociologo tedesco Erich Fromm, sintetizza bene questa dinamica: la capacità di provare empatia e connessione con la natura è la chiave per affrontare problemi ambientali così complessi.
In questo contesto, la Calabria può diventare un territorio simbolo delle sfide future del Mediterraneo. Poco industrializzata, con un basso indice di densità abitativa, ricca di montagne e circondata dal mare, con climi diversi e variegati, la nostra regione ha le potenzialità per diventare un modello di sviluppo sostenibile non solo per l’Italia, ma per l’intero bacino mediterraneo.
Prepararsi ai mutamenti climatici: cosa dobbiamo fare?
I mutamenti climatici ci impongono politiche di prevenzione e gestione sostenibile: dalla cura delle foreste all’uso responsabile delle risorse idriche, dalla manutenzione del territorio alla protezione degli ecosistemi. Accanto a questo, è fondamentale promuovere educazione ambientale e coinvolgimento delle comunità locali, affinché cresca la consapevolezza degli effetti dei modelli economici sull’ambiente e si comprenda la direzione da prendere per un futuro sostenibile. Cambiare economia è ormai una necessità di sopravvivenza.
Ma c’è un aspetto più inquietante che ostacola la possibilità di creare un movimento globale uniforme e coerente. Questo fenomeno ha radici profonde nei meccanismi difensivi del cervello umano. Come spiega Andrea Bariselli, neuroscienziato e ultratleta, nel suo libro e podcast “Wild Mind”, di fronte a una minaccia complessa e lontana nel tempo come il cambiamento climatico, la mente tende a negare, rimuovere o razionalizzare il problema per proteggersi dall’ansia e dalla necessità di cambiare radicalmente le proprie abitudini.
In altre parole, il nostro cervello non è evoluto per affrontare pericoli di questa portata, che non sono immediati né visibili come una minaccia diretta. Preferiamo credere a chi minimizza il problema o nega la scienza, e questo spiega in parte la lentezza con cui le società affrontano il cambiamento climatico.
Un bel guaio, insomma. E ora? La sfida non è solo tecnologica o politica: è anche psicologica e culturale, e richiede strategie che uniscano informazione, responsabilizzazione e azione concreta, rendendo la crisi climatica una questione personale e collettiva allo stesso tempo
Una sfida che riguarda tutti
L’Antropocene è l’era in cui la specie Homo sapiens - cioè noi -ha raggiunto il massimo sviluppo, sia in termini numerici che di capacità di influenzare e controllare il pianeta. Con il tempo, la nostra specie ha cominciato a sentirsi distaccata dalla natura, considerandosi superiore e in grado di dominarla. Ma non è così. Noi facciamo parte della natura e siamo soggetti alle stesse regole che governano ogni altro organismo sul pianeta.
Prima o poi, la natura ci ricorderà il nostro posto. L’umanità è sulla Terra da relativamente poco tempo, mentre molte specie vegetali e animali hanno milioni di anni di storia, essendo sopravvisute a cataclismi e mutamenti radicali. La resilienza della nostra specie sarà messa a dura prova e non è detto che ne usciremo vittoriosi.
La parola estinzione può sembrare lontana e astratta, ma è un’opzione reale e non va ignorata. In conclusione, abbiamo due possibilità: rendere la nostra presenza sostenibile o lasciare che sia la natura stessa a ristabilire gli equilibri, come ha fatto per milioni di anni prima di noi. D’altronde, gli Homo sapiens sono solo un bagliore effimero nella linea del tempo della Terra
*Guida del Parco Nazionale della Sila

