Il Giappone, per come l’ho vissuto io, non è un semplice viaggio. È qualcosa che ti cambia dentro. Un'esperienza che ti entra nella pelle. Perché lì tutto è diverso: il ritmo, il silenzio, la gente, il modo in cui si cammina, ci si guarda, si mangia. Non ci sono solo le foto da cartolina: c’è una sensazione costante di armonia. E anche un po’ di soggezione. Perché ti senti piccolo, ma nel modo giusto.

Tokyo: un altro mondo

“Come se lui ci appartenesse da sempre”.

Prima di tutto, c’è da dire che questo viaggio è nato da un sogno di Andrea, il mio compagno di viaggio. È stato lui ad avere il desiderio forte di partire, a organizzare ogni dettaglio con cura quasi certosina. Andrea Di Carluccio, che nella vita fa il nutrizionista e il farmacista, ha sempre avuto una strana connessione con il Giappone — una specie di richiamo che non sa spiegarsi, come se fosse stato giapponese in una vita precedente. Vederlo camminare tra i quartieri di Tokyo con una familiarità quasi istintiva mi ha fatto pensare che forse quella terra lo stava davvero aspettando. Come se lui ci appartenesse da sempre.

A Tokyo sono arrivato con il cuore pieno di aspettative, ma quello che mi ha accolto ha superato ogni immaginazione. Sono partito dalla visita al Meiji Jingu, il grande santuario immerso nel verde nel cuore della metropoli, e poi mi sono addentrato nei quartieri, tra i contrasti di Shibuya e la spiritualità di Asakusa, dove il Senso-ji — il più antico tempio buddhista della capitale — ti accoglie con la sua lanterna rossa e la strada piena di profumi, souvenir, incenso e devozione.

A Shibuya, oltre ad attraversare il celebre incrocio, sono salito sulla terrazza panoramica, da cui si può osservare dall’alto quella danza sincrona di persone che si muovono senza urtarsi mai. E poi Akihabara, che è come entrare in una PlayStation: anime, robot, colori, gente che si ferma a guardare schermi. Confesso che lì mi sono sentito un po’ fuori luogo, ma proprio per questo ne ho colto la potenza: è un altro linguaggio, un altro modo di vivere. E per chi come me è cresciuto con Dragon Ball e Pokémon, è stato un po’ come ritrovarsi catapultato in una parte dell’infanzia lasciata sospesa, in una Tokyo parallela, piena di pixel e nostalgia.

E poi l’incontro con Shigeru Murata. Questo signore di 72 anni, funzionario pubblico ancora attivo nonostante la pensione, parla italiano meglio di tanti nostri connazionali. Ha un’energia incredibile, cammina come se ne avesse 40 e conosce Tokyo come le sue tasche. Lo fa gratuitamente, solo perché ama l’Italia e vuole continuare a praticare la nostra lingua. Uno di quegli incontri che non dimentichi. Se programmate un viaggio in Giappone, contattatelo su Facebook: ne vale la pena. Ma preparatevi, perché a stargli dietro bisogna davvero allenarsi: mastica chilometri a un ritmo impressionante.

Un’altra immagine che mi porto dentro è quella degli autisti dei bus urbani: ogni volta che finivano il turno, si alzavano, si inchinavano verso i passeggeri e ringraziavano. Ogni nuovo passeggero veniva accolto con la stessa cortesia, sempre al microfono. E in metro, nonostante l’enorme quantità di persone, regnava un ordine impressionante. Niente spintoni, niente urla, niente clacson. Silenzio. Rispetto. Educazione quasi genetica, mi verrebbe da dire.

Un dettaglio che mi ha colpito profondamente — e che racchiude tutta la delicatezza delle norme sociali giapponesi — l’ho vissuto proprio in metropolitana. Accanto a me era seduta una signora anziana, visibilmente in difficoltà: aveva chiaramente bisogno di soffiarsi il naso, ma non lo ha fatto. Le tremava perfino il petto dallo sforzo di trattenersi, ma ha resistito. In Giappone, soffiarsi il naso in pubblico è considerato sconveniente, soprattutto nei luoghi affollati. E lei, pur nel disagio, ha preferito il rispetto del contesto al proprio sollievo. Un gesto piccolo, ma potentissimo, che dice molto più di mille parole sulla cultura giapponese dell’autocontrollo e della considerazione per l’altro.

Da criminologo, ho vissuto un’esperienza che mi ha davvero sorpreso: camminando per le vie di Tokyo, nei quartieri più affollati o nei vicoli più remoti, mi sono sentito costantemente al sicuro. Una percezione profonda, quasi fisica, come se ci fosse un’energia invisibile a proteggerti. Anche nei mezzi pubblici, affollati ma sempre ordinati, regnava una sensazione di tranquillità che da noi sembra impossibile. E non era solo un’impressione: me l’ha confermato il dato oggettivo del bassissimo tasso di criminalità giapponese — uno dei più bassi al mondo. Un fatto che dovrebbe farci riflettere su quanto la sicurezza possa nascere non solo dalle leggi, ma da una cultura condivisa del rispetto e dell’autodisciplina.

E poi, da amante del caffè, ogni volta che ritorno dall’estero ho bisogno di tornare al mio bar sotto casa, perché diciamolo: il caffè buono è nostro, è italiano. Ma appena rientrato a Roma, quel rituale è stato uno shock. Il caos, le urla, la fretta… e come se non bastasse, il giorno dopo il rientro, ho subito un ritardo di 190 minuti sulla Frecciarossa, per un “albero caduto”. Nessuna comunicazione, nessuna assistenza. E mi sono chiesto: in Giappone ci avrebbero fatto aspettare tre ore senza dire nulla? Senza organizzare una navetta, senza almeno una rassicurazione? Credo che sarebbe molto interessante, quasi educativo, invitare i nostri rappresentanti — comunali, regionali, nazionali — a farsi un viaggio in Giappone. Non per turismo, ma per importare quella cultura dell’efficienza e del rispetto che a noi, onestamente, manca tanto. Ma tanto davvero.

Un’altra cosa che mi ha colpito profondamente è accaduta appena atterrati in Giappone, all’aeroporto di Haneda. Gli addetti si occupavano delle valigie con una delicatezza quasi commovente: nessun rumore, nessuno sbattimento. Le valigie venivano adagiate, accompagnate con rispetto, quasi fossero cose preziose. Al ritorno, a Fiumicino, sembrava invece che stessero lanciando pietre su altre pietre. Un contrasto che dice tutto: lì il rispetto è ovunque, anche nei dettagli più piccoli.

Kyoto, Nara e la cerimonia del tè

Dopo Tokyo, siamo arrivati a Kyoto. Più intima, più tradizionale, più silenziosa. Qui abbiamo visitato templi come il Kiyomizu-dera, con la sua terrazza di legno affacciata sulla città, e il celebre Fushimi Inari, con i suoi infiniti torii rossi che si arrampicano sul monte.

A Nara, poi, ho vissuto uno degli episodi più teneri: i cervi del parco si inchinano per salutarti, aspettandosi in cambio i cracker appositi che si vendono all’ingresso. Un gesto che mi ha fatto riflettere su quanto il rispetto e la ritualità siano profondamente radicati nella cultura giapponese.

Tra le esperienze più significative c’è stata la cerimonia del tè presso una scuola tradizionale: la vestizione con il kimono — sottoveste, kimono, e sopra il haori — è stata già di per sé un rito. Poi la preparazione, il modo in cui si mescola il tè, come si tiene la tazza, e infine quel piccolo rumore — il risucchio — che non è maleducazione, ma un segno di gratitudine verso chi ha preparato e verso chi condivide con te quel momento.

Hiroshima: il dolore che insegna

Hiroshima. Qui si fa silenzio. Non solo fuori, ma dentro. Il Memoriale della Pace, la cupola rimasta intatta dopo l’esplosione, il museo… tutto ti chiede di fermarti. Di ascoltare. Di capire. E mentre osservavo quelle foto, quelle testimonianze, quelle ombre incise sui muri, non ho potuto fare a meno di pensare al nostro tempo. Alla guerra che ancora oggi devasta popoli e coscienze. E mi sono detto: oggi, tutti, potremmo essere Hiroshima.

Miyajima: la carezza

Poi Miyajima, come una carezza. Il torii galleggiante l’ho visto al tramonto, poi all’alba. Due luci diverse, ma la stessa magia. È un luogo che ti fa sentire piccolo, ma accolto. Non c’era rumore. Solo acqua, vento e qualche cervo che camminava libero. Ho provato le famose ostriche grigliate e la birra artigianale locale, mentre alloggiavo in un resort costruito come un tradizionale ryokan, con stanze in stile giapponese e un onsen privato. Un piccolo angolo di paradiso.

Osaka: un altro ritmo

Infine Osaka, che è un po’ più “occidentale”, più diretta, più caotica. Ma con una vitalità contagiosa. È una città che non dorme mai, pulsante di energia, dove si mescolano modernità e tradizione. Frequentata soprattutto da giovani di tutte le nazionalità, Osaka è la versione più pop e dinamica del Giappone. Passeggiando per Dotonbori, tra luci al neon, street food e una gioventù che sembra voler correre e fermarsi allo stesso tempo, ho assaggiato il takoyaki, le famose polpette di polpo servite bollenti, e l'okonomiyaki, una specie di frittata alla giapponese ricca e saporita, preparata davanti ai miei occhi. Un Giappone diverso, ma pur sempre Giappone. Un’immersione in un’energia che travolge e affascina.

Il rischio di innamorarsi

Come orientatore che incontra i giovani nelle scuole per aiutarli a fare scelte consapevoli, non potevo non notare un’altra peculiarità del Giappone che mi ha colpito profondamente: il concetto di orientamento scolastico e personale. In Giappone non si lavora per compartimenti stagni. Si osserva l’individuo fin dall’età evolutiva, si valorizza il talento con serietà e concretezza, si forniscono strumenti autentici non solo agli studenti, ma anche alle famiglie e agli insegnanti. L’obiettivo non è solo scegliere una scuola o un mestiere, ma accompagnare ciascun giovane verso la propria autorealizzazione, verso la serenità. In Giappone non esistono scorciatoie. Si lavora sul lungo periodo. Si costruisce. E questo approccio mi ha emozionato, perché è esattamente ciò che dovremmo aspirare a fare anche qui.

Ma quello che davvero mi porto dentro, più di tutto, è il rispetto. Ogni giorno ho visto cose che in Italia sembrerebbero impossibili: autisti che si inchinano al cambio turno, bambini che non piangono, nessuno che urla, clacson assenti, file ordinate anche in mezzo a migliaia di persone. E ovunque pulizia. Ovunque ordine. Ma non quello imposto: quello scelto.

E allora ti chiedi: ma come fanno? È genetica? È educazione? È fede? Forse tutto insieme. So solo che lì senti il desiderio di migliorarti. Ti vergogni quasi dei tuoi difetti. Ma non perché te li fanno pesare, anzi. Perché ti mostrano che si può fare diversamente. Si può vivere con grazia, con attenzione, con rispetto.

E poi ci sono piccole scoperte che ti cambiano le abitudini. Per esempio, per chi ama il sushi — e magari frequenta il solito 'all you can eat' italiano — ecco, preparatevi: in Giappone è tutta un'altra storia. La freschezza, la precisione del taglio, la cura nella preparazione... sembra quasi un altro piatto. Da quando sono tornato, confesso che faccio fatica ad affrontare il solito sushi. L'esperienza giapponese ha alzato troppo l’asticella.

Un’altra cosa che mi ha colpito: la gentilezza estrema. I giapponesi non ti diranno mai un “no” diretto. Anche quando non possono aiutarti o non hanno quello che cerchi, preferiscono sorriderti, annuire o trovare un modo gentile per aggirare la negazione. All’inizio pensi che non abbiano capito. Invece hanno capito benissimo. È solo che la loro educazione tende a evitare il rifiuto diretto, per non metterti a disagio.

E ancora, ogni volta che entravo in un negozio e chiedevo qualcosa che magari non avevano, partivano una serie di inchini e un fiume di 'sorry' così sinceri e reiterati che finivo io per sentirmi in colpa, mortificato dalla loro mortificazione. Una gentilezza che disarma, che ti spiazza. E che ti insegna molto più di mille parole.

Il Giappone non è solo un viaggio. È una lente nuova per guardare il mondo. E se lo lasci entrare davvero, non se ne va più. Resta. Ti accompagna.

Come dice un proverbio giapponese:

「一期一会」 (Ichigo ichie) — "Ogni incontro è irripetibile. Vivi ogni momento come se fosse unico."

E in fondo è proprio così che ho vissuto questo viaggio. Un’esperienza unica, che porterò sempre con me, e che — ne sono certo — ha lasciato un segno profondo.

E forse, nel tempo, ti cambia.