La storia di una donna di 43 anni che lotta contro un tumore al seno. Dalla diagnosi della malattia il 22 gennaio 2025 è iniziata una “via crucis”, gli ulteriori accertamenti fuori regione all’Ospedale di San Giovanni Rotondo, il trattamento chemioterapico a Rossano Calabro, le complicazioni per un batterio e il ricovero d’urgenza il 30 giugno nel reparto di Cardiologia dell’ospedale di Rossano con la diagnosi di endocardite. Da qui le richieste inevase del trasferimento Catanzaro Reggio Calabria con motivazioni “inverosimili” e l’approdo in una struttura privata convenzionata: il Mater Dei Hospital di Bari solo dopo aver firmato le dimissioni. La decisione di firmare e l’intervento il 30 luglio a cuore aperto per la ricostruzione di due valvole, compromesse dall’infezione. La raccontata in una lettera dal figlio della donna alla nostra redazione.

Gentile direttore,
mi rivolgo a Lei con profondo rispetto e con la necessità di condividere una storia che ha segnato in modo indelebile la mia vita e quella della mia famiglia. Una storia che definire "assurda" è riduttivo. È la storia di mia madre, una donna di 43 anni, coraggiosa e piena di vita, che da gennaio 2025 sta combattendo contro un tumore al seno. Ma non è stata solo la malattia a metterci alla prova. A renderci davvero impotenti, feriti e increduli è stata soprattutto la gestione sanitaria e istituzionale del suo percorso clinico. Tutto inizia il 22 gennaio 2025, quando un’ecografia mammaria rivela un nodulo sospetto. Il radiologo consiglia ulteriori accertamenti presso una struttura fuori regione: l’Ospedale di San Giovanni Rotondo. Lì arriva la diagnosi definitiva: carcinoma mammario di tipo triplo positivo. I medici decidono di avviare un trattamento chemioterapico preoperatorio, che mia madre inizia a marzo presso l’ospedale di Rossano Calabro, a 85 km dal nostro paese. Per facilitare le terapie, le viene impiantato un catetere venoso periferico (PICC), che purtroppo si rivelerà decisivo nello sviluppo di gravi complicazioni. Dopo alcune settimane, compaiono i primi sintomi: febbre, rossore, spossatezza. Un tampone rivela la presenza di un batterio (stafilococco). Nonostante una terapia antibiotica (farmacologica), il ciclo chemioterapico prosegue fino al 25 giugno. Pochi giorni dopo, il 30 giugno, mia madre viene ricoverata d’urgenza nel reparto di Cardiologia dell’ospedale di Rossano: la diagnosi è endocardite. Inizia una terapia antibiotica che inizialmente mostra segni di efficacia, ma ben presto la situazione precipita. I medici, valutando la gravità del quadro clinico, richiedono un trasferimento urgente presso le strutture ospedaliere di Catanzaro o Reggio Calabria. Entrambe rifiutano l’accoglienza, con motivazioni che definire “inverosimili” è un eufemismo. L’unica alternativa proposta è un trasferimento presso una struttura privata convenzionata: il Mater Dei Hospital di Bari. Ma c'è un ostacolo: essendo una struttura non pubblica, l’unico modo per accedervi è firmare dimissioni volontarie e affrontare un trasporto a nostre spese con ambulanza privata. Manifesto la mia contrarietà, scrivo alla direzione sanitaria, ma il personale sanitario mi dice che è l'unica soluzione e non c'è tempo. Siamo così costretti a scegliere tra due possibilità entrambe assurde: firmare un atto giuridicamente discutibile o rischiare la vita di mia madre. Contro ogni logica, mia madre firma. Viene trasferita a Bari. Il 30 luglio viene operata a cuore aperto per la ricostruzione di due valvole, compromesse dall’infezione. Ad eseguire l’intervento è stato il dottor Daniele Maselli, un medico straordinario a cui dobbiamo gratitudine eterna. Ha ridato una speranza a mia madre, e con essa a tutta la nostra famiglia. Oggi, mentre scrivo, mia madre è ancora ricoverata: l’infezione ha raggiunto anche i polmoni. È ancora in lotta. E noi con lei. Ma resta dentro di noi una ferita profonda. E molte, troppe domande. È normale, in Calabria, che per essere salvati si debba firmare una dimissione volontaria da un ospedale pubblico? È normale che due ospedali pubblici rifiutino un trasferimento urgente e salvavita? È normale che in una Regione come la Calabria una paziente oncologica debba affidarsi alla fortuna, o uscire fuori regione, per avere una possibilità concreta di sopravvivere? E se non avessimo avuto i mezzi economici per affrontare quel trasferimento? Cosa sarebbe accaduto? Io non credo che questo sia degno di un Paese civile. E men che meno di uno Stato di diritto. Confido che queste parole non restino inascoltate. E che Lei possa farsi portavoce di una vicenda che non è solo nostra, ma che riguarda centinaia di pazienti calabresi ogni anno. Pazienti che, a differenza nostra, spesso non hanno i mezzi, il supporto o anche solo la forza di farsi sentire.