Dal lento avanzare dei convogli alla lentezza del Paese: un viaggio tra introspezione, poesia e la quotidianità dei pendolari nel Sud Italia
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Ci sono viaggi che non si misurano in chilometri, ma in coscienza.
Questo articolo nasce da due sguardi che si incontrano sullo stesso binario: quello del viaggio interiore e quello del viaggio reale, tra le rotaie dell’Italia di oggi.
Da un lato la lentezza come metafora della vita, dall’altro la lentezza come realtà di un Paese che fatica a tenere il passo.
Due penne, due prospettive, un’unica direzione: capire cosa resta, oggi, del nostro modo di partire, di tornare, di aspettare.
Perché ogni treno, in fondo, racconta chi siamo — nel cuore e nelle ferrovie.
Il treno come metafora della vita
di Ernesto Mastroianni
La vita è un viaggio. E il treno, con il suo lento avanzare sulle rotaie, ne diventa subito una metafora potente.
Chi sale su un convoglio lo fa con la propria storia, con la propria fretta o lentezza, con i bagagli emotivi accumulati lungo il percorso.
C’è chi scende alla prima fermata, chi si ferma più avanti, chi non scende mai e continua il viaggio fino alla fine.
Ognuno ha la propria stazione, il proprio momento di partenza e di arrivo. Ma il senso profondo non è nella destinazione: è nel viaggio stesso.
La poesia Itaca di Konstantinos Kavafis ci ricorda questo in modo struggente.
Itaca non è un luogo da raggiungere frettolosamente, ma il viaggio che ci conduce fino a essa, con tutte le esperienze, le difficoltà, le scoperte e le meraviglie che incontriamo lungo il cammino.
Ogni tappa, ogni fermata, ogni incontro sul treno della vita ci forma e ci trasforma, ci regala storie da raccontare e occhi con cui guardare il mondo.
Il vero viaggio sta nel sapere godere del percorso, nell’accogliere l’incertezza, nel comprendere che la meta è solo un pretesto per vivere pienamente.
Anche la letteratura italiana ci offre esempi che parlano a questo stesso principio.
Nei Malavoglia, gli addii e i ritorni scandiscono la vita dei personaggi: ogni separazione è dolorosa, ogni ricongiungimento temporaneo, ma è il continuo andare e tornare che rende la loro esistenza intensa e piena di senso.
In Pirandello, come ne Il professore terremoto, i viaggi, anche brevi, diventano occasioni di introspezione, momenti in cui il mondo esterno riflette i turbamenti interiori dei personaggi.
Ogni spostamento, ogni tratto percorso, diventa metafora di scelte, incontri e perdite.
Il treno della vita è così: scorre davanti ai nostri occhi, attraversa paesaggi che cambiano in continuazione, ci obbliga a confrontarci con il tempo e con gli altri passeggeri.
C'è chi sale su un treno e scende alla prima fermata. Chi alla seconda. Chi dovrà scendere per poi risalire su un altro treno.
Non possiamo sapere quanto durerà il viaggio, né quante stazioni incontreremo lungo la strada.
Ma possiamo scegliere di guardare fuori dal finestrino, di ascoltare il ritmo delle rotaie, di accogliere la bellezza di ogni attimo, consapevoli che è proprio il viaggio, con tutte le sue pause, i salti e i rallentamenti, a rendere la vita straordinaria.
Non importa se scenderemo presto o tardi, se il treno arriverà a destinazione o se il nostro viaggio ci condurrà altrove.
Ciò che conta davvero è vivere ogni fermata come un dono, ogni compagno di viaggio come una lezione, ogni paesaggio come un invito a restare vigili e presenti.
Come Kavafis ci ricorda, Itaca ci ha dato il viaggio: e questo, più di ogni meta, è ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
Il treno come specchio dell’Italia che siamo
di Francesco Vilotta
Ci sono viaggi che un Paese non dovrebbe mai perdere: quello verso la dignità, per esempio.
E invece, in Italia, basta salire su un treno per capire dove finisce la civiltà e dove comincia l’abbandono.
Ci sono convogli che partono e non arrivano mai.
E poi ci sono quelli che non partono affatto, fermi in una stazione dove il tempo ha smesso di crederci.
È lì che comincia l’altra metà del viaggio — quella che non sta nei libri di poesia, ma nella realtà nuda delle tratte tagliate, delle stazioni chiuse, delle coincidenze perse perché nessuno ha più pensato di farle tornare.
Il treno, in Italia, non è solo una metafora della vita. È la vita stessa che corre a due velocità.
Da una parte l’Alta Velocità che collega Milano a Napoli in poche ore, vetrina di un Paese che si vuole moderno.
Dall’altra le linee dimenticate del Sud, dove i treni non collegano ma dividono: tra Napoli e Bari si viaggia ancora per sei ore, come se il tempo, lì, avesse scelto di restare indietro.
Qui non si parte per Itaca, si parte per lavoro. O per fuggire. O per tornare quando si può.
Sui treni regionali che arrancano tra le linee della Calabria, della Puglia, della Basilicata e della Sicilia, viaggiano pendolari che non recitano versi di Kavafis ma fanno i conti con il tempo perso, con i figli da portare a scuola, con un Paese che li ha abituati a non aspettarsi più nulla.
Ogni ritardo è una piccola ferita, ogni corsa soppressa un’altra rassegnazione.
Eppure, anche lì, tra la polvere dei finestrini e il rumore sordo dei binari, si intravede ancora qualcosa che somiglia alla speranza: la voce di una donna che chiama sua madre al telefono, il ragazzo che studia in piedi, l’uomo che guarda fuori e pensa che, tutto sommato, la vita continua a passargli accanto.
Il treno, in fondo, ci racconta. Dice chi siamo, quanto valiamo, quanto conta la nostra parte di mondo per chi decide.
E allora, quando guardiamo la velocità di un Frecciarossa che attraversa la pianura padana, dovremmo pensare anche ai treni lenti, quelli che si fermano a Paola o a Scilla, quelli che fanno cento fermate in un giorno perché ogni paese ha diritto al suo viaggio.
Non sono solo convogli: sono la geografia morale di un Paese diviso tra chi arriva e chi resta a terra.
C’è un’Italia che sale sul treno con la valigia leggera e il biglietto elettronico.
E un’altra che aspetta il regionale soppresso, con la mano sulla ringhiera, guardando l’orologio che segna l’ora di sempre.
Forse è da qui che dovremmo ricominciare: da un treno che non promette Itaca, ma almeno una fermata certa.
Perché un Paese che non sa far viaggiare i suoi treni, non saprà mai far viaggiare nemmeno i suoi sogni.