Classe 1995, originario di Cosenza e cresciuto a Piano Lago fino alla maturità, Emanuele Cristelli vive da dieci anni a Trieste, dove ha conseguito due lauree: in Scienze Politiche e in Diplomazia e Cooperazione internazionale. Oggi lavora come consulente in pubbliche relazioni e comunicazione strategica, coltivando al tempo stesso una forte passione per la democrazia e le istituzioni. Già Senatore Accademico, ha ricoperto diversi incarichi politici, istituzionali e nel terzo settore.

Cristelli ha annunciato sui suoi social l’uscita imminente del suo nuovo libro “Chi ha ucciso la politica – Quando e perché abbiamo iniziato a odiare la democrazia?”, disponibile dal 5 settembre 2025. Ne parliamo con l’autore.

Emanuele, quindi la politica è morta veramente?
«Il titolo del mio libro è chiaramente una provocazione: non credo che la politica sia morta effettivamente , ma sicuramente è cambiata in profondità. La politica è un bisogno umano, non può scomparire. Quello che è entrato in crisi è il modo in cui l’abbiamo vissuta negli ultimi decenni: i partiti, le forme di partecipazione tradizionali, i luoghi in cui le persone si incontravano e discutevano. È “morta” una certa idea di politica, e oggi siamo chiamati a capire se siamo in grado di inventarne una nuova, al passo con i tempi, capace di andare oltre i tabù, più credibile, che vada ad ampliare il più possibile il ventaglio di opportunità per la partecipazione politica.

Un esempio: la politica oggi richiede un impegno generalista non più compatibile con l’attitudine delle nuove generazioni a interessarsi di poche tematiche, approfondirle e farne ragione di attivismo. Il sistema politico odierno è repellente a questa nuova forma di vivere la cosa pubblica».

Chi l’ha uccisa, e perché?
«Non c’è un colpevole unico, non a caso il titolo del libro non è in forma interrogativa, ma affermativa: io l’ho uccisa, tutte le volte che non ho saputo impormi; l’hanno uccisa coloro che invece di vivere per la politica vivono di politica; i giornalisti che pubblicano stralci di provvedimenti giudiziari in modo illegittimo; gli avvelenatori di pozzi che, con le fake news e il populismo, hanno fatto esplodere l’odio nella nostra società, ecc.

È stata una lenta erosione. La politica è stata logorata dalla sfiducia, dal personalismo, dall’idea che contino più i leader che le comunità. L’hanno uccisa anche i partiti stessi, incapaci di rinnovarsi e di rivendicare il primato della politica nella società. Ma è anche colpa di una società civile che spesso ha preferito delegare piuttosto che partecipare, rinunciando a priori a dire la propria. È un delitto collettivo, da cui però possiamo ancora riscattarci».

Qualcuno pensa che la fine del finanziamento pubblico sia una delle cause, perché i partiti tradizionali hanno dovuto rinunciare alle sezioni, e fare politica è diventata una roba da ricchi.
«È un punto cruciale. L’abolizione del finanziamento pubblico ha avuto un effetto devastante sulla democrazia: i partiti hanno perso le radici territoriali, le sezioni, i circoli. Fare politica è diventato un lusso per chi non ha mezzi propri o appoggi. Così la politica si è impoverita di intelligenze, ha smesso di formare persone ed è rimasta nelle mani di pochi. Non serviva cancellare il finanziamento pubblico inseguendo la furia iconoclasta populista verso i presunti simboli della corruzione morale e materiale della politica: serviva renderlo trasparente e controllato, possibilmente non dalla politica stessa. Invece abbiamo consentito che venisse demonizzato, e oggi ne paghiamo il prezzo».

Magari c’è anche una responsabilità della società, che è cambiata. Ad esempio, i social hanno reso tutti presenti e partecipi di ogni evento, per cui la mediazione dei partiti sembra venuta meno.
«Assolutamente sì. I social hanno cambiato tutto: hanno dato voce a chiunque, ma al tempo stesso hanno frammentato la società. I partiti non sono più percepiti come necessari, perché ognuno pensa di potersi rappresentare da solo. Ma rappresentare la complessità delle esistenze odierne, sempre più atomizzate, è difficilissimo. Un tempo i partiti di massa avevano, paradossalmente, vita più facile, con una divisione del lavoro e della società più semplice. Il problema è che la democrazia senza mediazione diventa, comunque vada, una somma di urla e non una costruzione collettiva.

Il digitale può ampliare la partecipazione democratica – pensiamo alle firme online per i referendum – ma se manca il confronto reale, i social rischiano di alimentare soltanto rabbia e polarizzazione. Per questo serve un grande investimento nell’educazione al digitale: l’unico modo per controbilanciare la deriva tossica della rete».

Il tuo non è un testo accusatorio, ma una riflessione che nasce da quindici anni di osservazione dall’interno e di impegno politico intenso. Ma c’è una via d’uscita da questa drammatica crisi che ha cancellato di fatto i grandi partiti, quelli che hanno fatto la storia?
«Io credo che la via d’uscita ci sia, ma non sarà breve. Non si tratta di ricostruire i partiti del passato, ma di recuperare lo spirito che li animava: la capacità di educare, di includere, di dare un senso collettivo alle vite individuali.

La politica deve tornare a essere, e innanzitutto sembrare, utile: ascoltare, creare comunità, parlare il linguaggio delle persone, ma con la capacità e la responsabilità di dire anche le cose scomode. Ricostruire fiducia attraverso una comunicazione e un’organizzazione credibile. Questo libro non è una resa, ma un invito: o ricostruiamo la fiducia nella democrazia, o accettiamo il rischio che altri riempiano quel vuoto con soluzioni autoritarie che, a modo loro, dimostrano di avere il potere di incidere più rapidamente e in profondità nelle nostre società dai tempi sempre più veloci.

Del resto, l’indifferenza è il peso morto della storia, no?»

Qual è oggi il tuo ruolo politico, considerato che hai avuto un trascorso, anche se sei giovane, piuttosto intenso?
«Oggi non ricopro incarichi politici formali, e questo mi permette di guardare le cose con più libertà. Mi considero un osservatore partecipe: non sono un “ex”, perché la passione per la politica non si spegne, ma non sono neppure attualmente un dirigente politico come sono stato in passato nei partiti a cui sono stato iscritto.

Come ultimo gesto ho abbandonato Italia Viva, da membro dell’assemblea nazionale, quando Renzi ha fatto una giravolta rispetto alla prospettiva terzopolista e liberaldemocratica, inaccettabile per me e per tantissimi giovani (e non) che non volevano rinunciare a rappresentare una fetta importante e presente del Paese, perdendo così credibilità. Per questo ho fondato insieme a Luigi Marattin e ad altri amici e amiche prima Orizzonti Liberali, piattaforma politica che ha gettato le basi per dar vita, quest’anno, al nuovo Partito Liberaldemocratico.

Il mio ruolo oggi è quello di cittadino consapevole, di consulente che prova a leggere la realtà e, con questo libro, di stimolare una discussione. La politica non appartiene solo a chi ha una carica: appartiene a ciascuno di noi. E oggi sento che la miglior forma con cui posso dare il mio contributo per migliorare il mondo che mi circonda e la politica sia questa».