Addio all’uomo Del Monte. O, almeno, a quello che per decenni è stato uno dei simboli più riconoscibili della pubblicità anni '80. Martedì 1 luglio, Del Monte Foods, l’azienda californiana con oltre 139 anni di storia alle spalle, ha presentato istanza di fallimento presso un tribunale federale degli Stati Uniti, ricorrendo al famigerato Chapter 11, la norma della legge fallimentare americana che consente alle imprese in difficoltà di ristrutturare il debito sotto la supervisione del giudice, continuando al contempo le proprie operazioni.

Il nome Del Monte evoca un’epoca in cui frutta e verdura in scatola rappresentavano il futuro dell’alimentazione: prodotti esotici, selezionati direttamente nelle piantagioni tropicali da un elegante signore in abito bianco e panama, che con un semplice cenno approvava il raccolto.
“L’uomo Del Monte ha detto sì” è diventato un tormentone, simbolo di qualità e di fiducia. Ma quel mondo è finito. E oggi l’uomo Del Monte ha detto stop.

La decisione è arrivata dopo anni di difficoltà crescenti, acuite da un mercato sempre più ostile ai grandi marchi del food tradizionale. Con un debito superiore a 1,2 miliardi di dollari, Del Monte ha dichiarato l’intenzione di vendere “tutti o sostanzialmente tutti” i suoi asset per poter rientrare almeno parzialmente nei conti.
Secondo quanto dichiarato dall’amministratore delegato Greg Longstreet, la procedura è stata l’unica via possibile: «Dopo un'attenta valutazione di tutte le opzioni disponibili, abbiamo deciso che una procedura di vendita sotto la supervisione del tribunale è il modo più efficace per accelerare la nostra ripresa e creare una Del Monte Foods più forte e duratura».

L’azienda, con sede a Walnut Creek, in California, potrà continuare a operare anche durante il processo di bancarotta grazie a un finanziamento da 912,5 milioni di dollari, messo a disposizione da alcuni dei suoi principali creditori. Una boccata d’ossigeno che però non basterà, da sola, a risollevare le sorti di un marchio in evidente crisi d’identità.

Nel 2023, S&P Global aveva già lanciato l’allarme, declassando il rating di credito di Del Monte da B a B–, citando «scarse performance operative e prospettive deboli». I numeri non mentivano: vendite in calo, margini sempre più ridotti, scarsa capacità di innovazione in un mercato che chiedeva prodotti freschi, naturali, sostenibili.

A pesare sul crollo del colosso, secondo gli analisti, ci sarebbe stato anche l’effetto a catena della guerra dei dazi avviata dall’ex presidente Donald Trump, che ha colpito in modo significativo l’intero comparto alimentare. I prezzi al consumo sono aumentati, e i consumatori statunitensi, già alle prese con l’inflazione, hanno iniziato a preferire i prodotti delle private label, ovvero i marchi dei supermercati, spesso più economici, penalizzando i grandi nomi storici.

A nulla sono serviti gli sforzi per rilanciare il brand, nemmeno le campagne social o l’introduzione di linee “healthy” con porzioni ridotte e packaging ecosostenibile. I consumatori, semplicemente, non cercavano più la frutta in scatola. E il mercato, come si sa, non fa sconti a nessuno, nemmeno a un gigante nato nel 1886 e presente da generazioni nelle dispense americane.

Del Monte è stata per decenni una delle multinazionali alimentari più potenti al mondo. Nata come azienda californiana specializzata nella lavorazione del cibo in scatola, aveva raggiunto il successo globale con una gamma di prodotti vastissima: ananas, pesche, fagioli, mais, succhi di frutta, passate, snack, piatti pronti. In Italia, negli anni ’80 e ’90, la sua campagna pubblicitaria con l’iconico “uomo Del Monte” divenne un vero e proprio fenomeno di costume.

Il personaggio – una sorta di ispettore coloniale elegante e autorevole – incarnava l’idea di selezione, qualità e attenzione per il gusto. Il suo giudizio era insindacabile. E il suo “sì” bastava a vendere milioni di confezioni.
Ora quello stesso marchio è travolto da un mondo che corre veloce, che chiede autenticità, sostenibilità e trasparenza. Il “sì” dell’uomo Del Monte, oggi, non basta più. E forse è proprio per questo che, per la prima volta, ha dovuto dire no.