Pippo Baudo se n'è andato all’età di 89 anni. La notizia della sua morte non riporta alla mente solo le luci dei palcoscenici televisivi, ma anche le ombre di un’Italia che lui ebbe il coraggio di sfidare. Perché Baudo non fu soltanto un volto della cultura popolare: fu, a suo modo, un simbolo di resistenza civile.

Nella notte tra il 2 e il 3 novembre 1991, un boato squarciò il silenzio di Santa Tecla, frazione di Acireale. La villa di Pippo Baudo, affacciata sumare, venne distrutta da una carica di tritolo. Non c’era nessuno in casa, e questo salvò la vita al conduttore. La notte prima il conduttore aveva dormito nella villa, poi si era svegliato la mattina presto per andare a Roma, dove avrebbe dovuto condurre la Domenica In.

Ma il messaggio era chiaro: quella non era una minaccia generica, era un attacco diretto.

Pochi mesi prima, ospite della trasmissione di Michele Santoro, Baudo aveva pronunciato parole nette, senza esitazioni, contro la mafia. Aveva ricordato il sacrificio del giudice Rocco Chinnici, assassinato nel 1983, e denunciato la presenza ingombrante di Cosa Nostra nella vita pubblica.

Quelle frasi, dette in diretta nazionale da un uomo di grande popolarità, avevano fatto infuriare i boss. Un presentatore che parlava come un cittadino libero e indignato rappresentava un pericolo. E per questo fu punito.

In realtà, l’attentato del 1991 era stato preceduto da altri segnali sinistri. Nel 1989, due episodi avevano già colpito le proprietà del conduttore: un rudimentale ordigno fatto esplodere nel giardino della villa e, poco dopo, un tentativo di incendio con benzina versata davanti alla sua abitazione. Erano avvertimenti. Baudo non li prese alla leggera, ma nemmeno arretrò. Continuò a parlare.

Quando la villa di Santa Tecla fu ridotta a macerie, Baudo reagì con dignità. Fece ricostruire l’edificio, come gesto di resistenza morale, ma decise di non viverci più. Anni dopo, ricordando quei giorni, disse con amarezza: "Avevo celebrato Chinnici, avevo parlato male della mafia. E ci fu questa vendetta. Mi costò cara questa cosa".
In un’altra intervista aggiunse: "Pensavo a un risarcimento. Ma mi dissero che dagli indennizzi erano esclusi gli attentati dinamitardi. Così dovetti fare tutto da solo". Era il segno di un Paese ferito: chi denunciava, spesso rimaneva solo.

Oggi, mentre piangiamo la sua scomparsa, il ricordo va soprattutto a quell’uomo che seppe esporsi. Pippo Baudo non era un magistrato, né un politico, né un giornalista investigativo: era un presentatore di varietà. Eppure, proprio per questo, la sua condanna della mafia ebbe un’eco straordinaria.

L’attentato alla sua villa non fu solo un atto intimidatorio: fu un colpo inferto all’Italia civile, al suo desiderio di alzare la voce. Baudo, ricostruendo la villa e andando avanti senza mai piegarsi, diede un segnale opposto: la cultura e il coraggio possono resistere anche al tritolo.

Ora che se ne va, resta l’immagine di quell’uomo elegante, ferito ma non vinto, che davanti alle macerie della sua casa trovò la forza di dire: non mi avranno.

Oggi l’Italia lo saluta non solo come il “re della televisione”, ma come un cittadino che, con un gesto di verità, pagò il prezzo della libertà.