Sul nuovo Sandokan voglio anch’io dire la mia. I calabresi, si sa, non sono gente che si accontenta facilmente. Quando a primavera hanno visto Can Yaman galoppare a cavallo sulla spiaggia di Tropea con la camicia sbottonata e il vento nei capelli, hanno pensato: «Finalmente ci trattano da Malesia». Sei mesi dopo, la stessa gente – quella che ha fatto la fila per la mostra di Terina e ha postato orgogliosa le foto del villaggio di Labuan ricostruito a Lamezia – si è seduta sul divano e ha spento la televisione dopo quaranta minuti con un sospiro: «Ma che è ‘sta roba?».

Il dato è inconfutabile: 5 milioni 755 mila spettatori e 33,9% di share non si vedevano da anni su Rai 1. Un trionfo. Eppure, per la prima volta nella storia della televisione italiana, un successo di ascolti così clamoroso convive con una delusione così diffusa. E la Calabria, che di questa serie è stata scenografia, coproduttrice e testimonial involontaria, ne esce con un sentimento strano: l’orgoglio di chi si è visto bello in fotografia, ma l’amarezza di chi sa che la fotografia è stata photoshoppata male.

Partiamo dai fatti. Il nuovo Sandokan è costato quanto un film kolossal, ha usato le nostre spiagge al posto della Malesia, ha costruito un intero villaggio coloniale dove prima c’erano capannoni abbandonati. Ha portato lavoro, turisti, visibilità. Ha fatto sì che per qualche mese il nome “Calabria” fosse pronunciato in conferenza stampa accanto a parole come “location perfetta”, “paradiso inesplorato”, “respiro della storia”. Tutto vero. Tutto giusto. Tutto meritato.

Ma poi arriva la messa in onda e il miracolo si spegne. Il motivo è semplice: questa non è un nuovo Sandokan. È una fanfiction da 25 milioni di euro. Il Sandokan di Salgari era un pirata feroce, un anticolonialista ante litteram, un uomo che uccideva i thug con le sue mani e poi piangeva sulla tomba della madre. Quello di Kabir Bedi era un guerriero magnetico, silenzioso, con lo sguardo che faceva tremare gli inglesi e il cuore che si spezzava solo per Marianna Guillonk.

Il Sandokan di Can Yaman è un influencer con la crisi esistenziale. Parla troppo, sorride troppo, fa la faccia da cucciolo bastonato anche quando sta per decapitare qualcuno. È politicamente corretto, ecologicamente sensibile, femminista. Manca solo che twitti #FreeMompracem. La regia poi sembra un lungo spot di profumeria: rallenti, luci calde, inquadrature che insistono sul torace dell’attore come se stessimo vendendo un dopobarba, non raccontando la lotta di un popolo oppresso. Le scene d’azione sono coreografate come un video di TikTok: tutti belli, tutti puliti, tutti con i capelli al vento. Quando Sandokan combatte, sembra che stia girando un tutorial di fitness.

E la Calabria? Ah, la Calabria è bellissima. Le spiagge di Capo Vaticano tolgono il fiato, il villaggio di Labuan a Terina è un piccolo prodigio di scenografia. Ma è usata come fondale da cartolina: non respira, non puzza di alghe e sudore, non ha la violenza della natura che Salgari descriveva. È una Calabria da dépliant turistico, non da romanzo d’avventura.

Il paradosso è crudele: la regione che ha dato il corpo alla Tigre della Malesia esce dal piccolo schermo più bella che mai, ma completamente scollata dall’anima della storia. Abbiamo prestato i nostri paesaggi per fare da quinta a un prodotto che non ha il coraggio di essere né epico né contemporaneo, né fedele né innovativo. È sospeso in un limbo di buonismo estetico che soddisfa tutti e non appassiona nessuno.

Eppure qualcosa di buono c’è, e va detto con onestà: questa serie ha dimostrato che la Calabria può essere un set internazionale. Che possiamo costruire villaggi coloniali in quattro mesi, che le nostre coste possono reggere il confronto con la Polinesia, che sappiamo lavorare. Il problema non è la location, è il racconto. Se avessimo avuto una regia più ruvida, un Sandokan meno patinato, una storia che mordesse davvero, oggi staremmo parlando del rilancio del grande sceneggiato italiano, non di un’occasione persa.

Chiudo con una provocazione. I calabresi, popolo di emigranti e di resistenza, hanno riconosciuto nella Tigre della Malesia un pezzo della propria storia: l’orgoglio di chi combatte contro chi lo considera inferiore. Per questo hanno accettato di fare da sfondo, sperando di rivedersi in quello sguardo fiero. Invece si sono ritrovati a fare da comparse in una storia che li usa, li abbellisce e poi li dimentica. La Tigre non ruggisce più. Fa le fusa. E noi, che le abbiamo prestato la giungla, restiamo a guardarla con un misto di affetto e di delusione. Come quando vedi un vecchio amico rifatto dal chirurgo estetico: lo riconosci, ma non è più lui.

*Documentarista