La stanza è silenziosa. Il tempo ha smesso di ticchettare e si è fatto attesa. Padre Fedele stringe una mano, forse l’ultima. Gli occhi sono stanchi, le ossa scavate da anni di calvario, ma le parole ancora arrivano, chiare, nette, come l’ultimo grido di un uomo che sa di non essere ascoltato: “Santa Madre Chiesa”.
Intorno a lui, il vuoto. Nessun vescovo, nessun abbraccio di quella Chiesa che dice di custodire i poveri ma abbandona chi ha scelto di viverci in mezzo. Un silenzio assordante. Un silenzio che giudica più di mille processi. Eppure lui è stato assolto. Da tutto. Ma non dalla dimenticanza.
Questa è la Calabria, oggi. Una terra che riesce sempre a raccontare due verità opposte nello stesso istante. Una terra dove un frate che ha speso la vita per la sua comunità e per i dimenticati lotta contro la morte fuori dai sacramenti, mentre un altro sacerdote, dall'altare, liquida la “cultura della legalità” come fosse una moda dannosa. E lo fa sotto gli occhi del potere, col volto unto del Vangelo e la voce impastata di retorica da comizio. Don Nuccio Cannizzaro ha detto che Gesù sfidava la legge. Ha detto che basta con questa legalità che “ha fatto solo danni”. Ha parlato come un tribuno, non come un prete. E lo ha fatto nella terra in cui ogni legge infranta si misura in morti ammazzati e latitanze protette.
Là dove dovrebbe esserci la parola, la preghiera, il perdono, è risuonato il manifesto dell’impunità. Alla messa d’apertura degli Stati Generali del Sud di Forza Italia, davanti a Tajani e a mezzo governo, si è tenuta una funzione che somigliava a un’autoassoluzione collettiva. Non c’erano telecamere, ma sarebbe stato meglio che ci fossero state: perché quello che è accaduto non va nascosto. Va raccontato. E inciso nella memoria.

Padre Fedele, no: lui non ha avuto palchi, ma strade, piazze, gradinate di stadio. Niente microfoni eccellenti: solo un megafono da cui urlava, incitava, trascinava. Ha avuto solo il fango, le accuse, la gogna. E poi l’oblio. Ma intorno a lui, oggi, si stringe la sua gente: i poveri, gli ex detenuti, i tifosi, i volontari, gli immigrati, la gente che ha visto la fame, la malattia, la vergogna. E in mezzo a tutto questo, ha trovato un uomo che non chiedeva chi eri, ma di cosa avevi bisogno.
È questa la sua eresia. Ed è per questo che la Chiesa lo ha lasciato solo. Perché nella sua fede c’era troppo Vangelo, troppo poco potere.
Questa è la contraddizione feroce che vive la Calabria: da una parte la Chiesa muta davanti alla sofferenza dell’ennesima battaglia per la vita di un uomo che ha fatto del cristianesimo un esercizio quotidiano di carne e pane, dall’altra la stessa Chiesa che applaude – o almeno tace – quando un suo ministro trasforma l’altare in una tribuna contro la legalità.
E allora bisogna allargare lo sguardo. Perché qui non è solo una questione di due preti, ma di due idee di fede e di due visioni di società. Da una parte chi mette la giustizia (soprattutto sociale) come base del vivere comune – come forma laica della carità. Dall’altra chi la trasforma in ostacolo, come se rispettare le regole e la legge fosse un freno alla libertà. Ma non c’è misericordia senza responsabilità, né perdono che possa prescindere dalla verità. In Calabria, dove le cosche si mimetizzano tra le processioni e le benedizioni, dire che la legalità fa male equivale a spalancare le porte a chi la giustizia la vuole solo piegare.
Chi ha visto padri uccisi, figli strappati alla vita, sa che la legalità non è una religione, ma una necessità. È il solo recinto dentro cui può nascere davvero l’amore per l’altro. E chi predica il contrario tradisce non solo la legge, ma anche il Vangelo.
Padre Fedele ha dormito con i clochard, ha costruito rifugi quando nessuno li voleva, ha portato ultrà nei villaggi africani per piantare alberi e costruire scuole, ha salvato giovani dall’oblio cui sembravano destinati. Ha servito Cristo nei volti sfigurati dalla miseria. E ora, mentre forse si spegne, chiede solo una cosa: la possibilità di morire da sacerdote. Ma quella porta, la porta della Santa Madre Chiesa, resta chiusa. Senza una spiegazione. Senza un gesto.
E allora la domanda diventa inevitabile: chi sta bestemmiando davvero?
La Chiesa ha sempre avuto due anime. Una fatta di potere, di cardinali vestiti d’oro, di accordi, di diplomazie. E una fatta di silenzio, disobbedienza, piedi scalzi, mani sporche di minestra e sudore. In Calabria, oggi, queste due anime si sono incarnate in due uomini. Uno muore nel silenzio. L’altro straparla.
E la politica, come sempre, sta a guardare. Perché il prete che incita a mollare la legalità fa comodo. E quello che la testimonia con la vita, disturba.
In una regione in cui ogni parola pesa, dove ogni gesto si fa simbolo, tutto questo non è una coincidenza. È una scelta. È un segno. Ed è un monito.
La dignità di un uomo non si misura dalle assoluzioni, ma dal vuoto che lascia quando tace. E oggi, accanto al letto di Padre Fedele, quel vuoto si sente. È un vuoto d’istituzioni, di coraggio, di gratitudine. Non della sua gente, che ancora oggi si stringe intorno al “Monaco”.
Questa non è solo la storia di un ex frate e di un prete discusso. È la parabola di un Sud che ha perso la bussola e non distingue più tra chi serve e chi si serve. Tra chi predica e chi pratica. Tra chi ama la carità, la partecipazione e la disobbedienza e chi grida soltanto per compiacere e per essere applaudito.
Spero ci sarà ancora molto tempo per i funerali solenni, per le commemorazioni tardive, per gli editoriali ipocriti. Ma oggi, adesso, l’unica cosa da fare è bussare a quella porta, aprirla, e restituire a Padre Fedele ciò che gli è stato tolto: la possibilità di continuare a vivere – o, se deve morire – di farlo con la tonaca che non ha mai smesso di indossare. Nemmeno quando gliel’hanno strappata di dosso.
Perché, alla fine, in questa storia, l’unico vero scandalo non è ciò che ha detto don Nuccio. Ma ciò che non ha fatto la Chiesa per Padre Fedele.
E il silenzio, certe volte, fa più rumore di ogni bestemmia.