Giuseppe Autiero, che insegna italiano al liceo classico Telesio, scrive agli studenti ammutinati e cita la poesia "Dialogo" di Giovanni Pascoli: «Somigliano alle rondini che non conosceranno mai la gioia della neve»
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Gianmaria: «Contesto il sistema e non dirò nulla. Nel corso di cinque anni di liceo, nessun insegnante ha cercato di capirmi veramente». Maddalena: «Se non ricevi il massimo dei voti, non vali niente». Enea: «L'ho fatto a causa di un voto che pretende di rappresentarmi». Parlano così tre dei quattro studenti che, nei giorni scorsi, hanno rifiutato di sostenere la prova orale dell'esame di maturità. A loro è rivolta la lettera scritta dal professor Giuseppe Autiero, docente di italiano presso il liceo classico "Bernardino Telesio" di Cosenza.
«Scrivo ai tre studenti che hanno protestato rifiutandosi di sostenere l’orale alla maturità: al primo, soprattutto, perché temo che gli altri abbiano più che altro cavalcato l’onda (social, va da sé). Scrivo da docente che ha provato a preparare, motivare, sostenere centinaia di maturandi nei tanti giorni e (via messaggio) notti prima dell’esame: conosco le ansie, i dubbi, i grovigli psicologici di diciottenni chiamati a questo rito di passaggio che ritengo ancora indispensabile ed utile ad acquisire il passo giusto per le sfide future.
Lo so, lo so: il sistema dei voti, la meritocrazia, la burocrazia cui hanno ceduto troppi insegnanti, il non sentirsi valorizzati e bla bla. Hanno ragione, certo, a protestare: tutto vero. Non è di questo che voglio parlare: bensì di cosa hanno perso, opponendo il silenzio ad una commissione (ben) disposta ad ascoltarli. Ossia della rinuncia (freddamente meditata) a vivere il calore di quel momento fatato in cui, magicamente, la candidata o il candidato sentono di avere rotto il ghiaccio, superato l’emozione iniziale: e parlano, discorrono più o meno brillantemente (ma questo non conta) di argomenti su cui hanno qualcosa da dire o magari inventare.
Non sarà tutto accademicamente impeccabile, ma è apprezzabile l’adrenalina positiva che li anima, che mette loro in bocca valutazioni, digressioni, strafalcioni e suggestioni… E poi, quei 50 minuti così temuti, d’un tratto, ecco, sono finiti: il Presidente deve quasi bloccarli nella loro foga oratoria, ci sono i riti di conclusione, parlare del PCTO, quindi la domanda di prammatica sui progetti universitari… Quasi in trance, con un istintivo sorriso che aleggia sui loro visi, stringono le mani dei commissari che mormorano sorridendo dei complimenti, si preparano all’abbraccio (fuori dalla classe) di amici e parenti…
Sì, lo so, dopo 32 anni di esami so anche questo: che non sempre va così, che qualcuno resta deluso, che i complimenti non sempre arrivano o sono sinceri, ma il vero punto è questo: il rito di passaggio si è comunque compiuto, la/il giovane ha superato l’ostacolo, ha ricevuto un primo lasciapassare (per il futuro, per la vita), ha sentito in sé sciogliersi il ghiaccio, il timore trasformarsi in adrenalina… E, quasi sempre, nei commenti del dopo, molti giovani ammettono, quasi sorpresi: avrei voluto continuare a parlare, a discutere…
Sì, poi ovviamente ci saranno polemiche sui voti (ciascuno meritava di più, gli altri di meno), ma queste appartengono al dopo, non fanno parte della magia di quell’ora, di quel rito unico. Sì, perché quelle sono emozioni irripetibili, inestimabili. Formative, in senso molto ampio. Un peccato averle perse per… già, per cosa? Per lanciare un messaggio, per denunciare una stortura? Per protestare contro un sistema? Per finire sulle prime pagine, per diventare trendy sui social?
Bene, il quarto d’ora di gloria mediatica è stato ottenuto, tra poco lascerà spazio mediatico ad altri quarti d’ora. Ma nella vita dei tre ragazzi resterà per sempre qualcosa come una mancanza. Mentre tutti gli altri hanno vissuto, forse insonni, la loro notte prima degli esami alle prese coi dubbi sulla propria adeguatezza, con le meravigliose incertezze adolescenziali (le ultime: le incertezze poi cambieranno segno e senso), è triste pensare che quei tre ragazzi l’abbiano vissuta, la loro notte vendittiana, con la calcolatrice in mano, ad accertarsi se coi crediti e voti scritti accumulati l’avrebbero sfangata lo stesso, dopo il gran rifiuto che meditavano.
C’è una poesia di Pascoli, “Dialogo”, che descrive la vita dura dei passeri, soli ad affrontare l’inverno nel mentre le rondini villeggiano nel caldo dei loro resort… quelle rondini che però non sapranno mai “la gioia della neve, il giorno che dimoia”. Maddalena, Gianmaria e l’Anonimo, mi spiace per loro, non sapranno mai quella gioia che centinaia di maturati mi hanno confessato: quando la neve dentro, quella della tensione e del timore di non farcela, infine dimoia, cioè si scioglie, trasformandosi nell’acqua limpida e gioiosa della prova superata, del primo prezioso incoraggiamento che la vita ci offre».