«Si vis pacem, para bellum» è una massima citata spesso in quest’ultimo periodo di esacerbati conflitti e profonde tensioni. Più che un pensiero, sembra uno slogan: una frase comoda, molto retorica e poco strategica, riciclata dalla polvere dell’Impero Romano e servita al pari di una verità inconfutabile. Così ha fatto anche Giorgia Meloni in Parlamento. Eppure, se interroghiamo la storia e il pensiero, ciò che emerge è ben altro: se davvero si volesse la pace, non si dovrebbe continuare a preparare la guerra.

L’espressione latina viene attribuita tradizionalmente a Vegezio, autore del “De re militari”, trattato composto nel V secolo per una Roma già in fase di declino. Nel III libro si legge: «Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum» («Dunque, chi desidera la pace, prepari la guerra»). Tuttavia, vale la pena riferire che, in quel contesto, la guerra era vista come una fatalità e la pace, di rimando, quasi solo come armistizio temporaneo.

Ora, è chiaro che il XXI secolo non è il V e la dottrina difensiva dell’armarsi per non essere attaccati ha oggi più l’acre sapore del pretesto che della prudenza. Difatti, serve spesso come cartina da tornasole per giustificare spese militari crescenti, più che a evitare realmente i conflitti. Ogni corsa al riarmo, poi – risulta superfluo dirlo – alimenta quella dell’altro. Viene chiamato “security dilemma”: più ci si arma, più l’altro si sente minacciato e si arma a sua volta. Un’escalation già tristemente nota, per esempio, nella Guerra Fredda.

Nel frattempo, chi parla di pace viene considerato sempre meno realista, sempre più ingenuo. Eppure, la pace europea garantita dal 1945 in poi – con tutte le sue folte e diversificate ombre – non è stata certo costruita su carri armati e testate nucleari, ma su istituzioni multilaterali, trattati e cooperazioni. Sono stati i ponti, il dialogo e non le armi a impedire il ritorno delle macerie.

In questa direzione si colloca lo storico segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer, che rovesciò la formula antica in un’affermazione semplice, ma radicale: «Se vuoi la pace, prepara la pace». Con ciò voleva dire che la pace non si costruisce in nessun caso con la minaccia o con l’arsenale, ma col dialogo, con la giustizia sociale, con la cooperazione tra i popoli. Insomma: la pace da intendere come progetto civile, non come tregua armata.

Numerosi sono gli esempi in questa direzione. Si pensi al pacifismo scomodo e mai evasivo del celebre scrittore russo Lev N. Tolstoj. Accanto ai suoi immarcescibili romanzi – “Guerra e Pace”, “Anna Karenina” e “Resurrezione” su tutti – c’è una nutrita produzione fatta di lettere, saggi, opuscoli, fiabe, ecc. in cui condanna, senza mezzi termini, ogni violenza come fallimento morale. Per Tolstoj, la guerra è già una sconfitta nel momento in cui si accetta come opzione.

In tal senso, esemplificativo è il racconto “Ivan lo scemo” (del 1886), in cui lo scrittore russo mette in scena un protagonista che rifiuta ogni logica di violenza e di competizione. Mentre i suoi fratelli si lanciano in imprese belliche sempre più distruttive, Ivan coltiva la terra, lavora, si fida di quanto gli riserva la vita. Così, quando uno dei fratelli escogita bombe capaci di annientare interi eserciti, l’apparato militare implode su se stesso causando distruzioni irreversibili. Una narrazione che anticipa profeticamente la follia autodistruttiva della guerra totale, inclusa quella nucleare, che ha segnato il Secolo breve.

Alla base del pensiero tolstojano c’è un’idea semplice: la vita è dono, lavoro e relazione. La risposta alla guerra non è prepararsi meglio, ma uscire una volta per tutte dalla logica del nemico. Questo approccio venne approfondito fino alla fine della sua esistenza ed emerge chiaramente nelle lettere che Tolstoj scambiò con Gandhi, soprattutto nel 1909, quando il giovane avvocato indiano gli chiese consiglio in merito all’azione politica nonviolenta. Quello scambio epistolare – di altissima tensione morale – è la dimostrazione di quanto la nonviolenza sia una pratica storica concreta, non un sogno irenico.

Preparare la pace, però, non vuol dire chiudere gli occhi davanti ai conflitti, ma lavorare sulle cause e non rincorrere solo gli effetti. Ancor di più, significa costruire una cultura politica fondata sul ripudio della guerra come mezzo «di offesa alla libertà degli altri popoli», così come recita l’articolo 11 della Costituzione italiana. Un articolo chiaro, radicale. Difatti, non si trova scritto “limita”, né “tollera in casi estremi”, ma “ripudia”, senza ambiguità.

Chi propone oggi il riarmo come soluzione, dimentica (o vuole dimenticare) che quel ripudio nasce dalle macerie e dal lutto. Così, preparare la guerra vuol dire tradire quella memoria. Preparare la pace, invece, ha un significato molto più profondo: inserirla nei programmi politici, nel linguaggio delle leggi, nei sistemi educativi, nelle scelte economiche.