Nella puntata odierna di Dentro le Notizie (clicca qui per rivedere la puntata) è stato presente in studio Vincenzo Fullone, attivista, volontario, testimone di una delle più controverse e dolorose pagine della solidarietà internazionale: la missione umanitaria della Freedom Flotilla.

Una nave carica di speranza, diretta verso la Striscia di Gaza, dove il blocco imposto da Israele continua a soffocare la vita e la dignità di un intero popolo. Fullone era a bordo di quella nave, insieme a uomini e donne provenienti da tutto il mondo, decisi a rompere un silenzio che da anni avvolge il Mediterraneo e le sue ferite.

Pierpaolo Cambareri gli chiede il perché di quella scelta. Fullone risponde con una commozione viscerale: «Portavamo farmaci salvavita, di cui c’è un bisogno disperato a Gaza. Il governo israeliano non lasciava entrare nulla. Noi volevamo solo portare aiuto, mani amiche, un segno di umanità in un luogo dove la vita vale sempre meno».

Parole che pesano come pietre. Non un gesto politico, ma un atto di umanità. Un viaggio intrapreso con la consapevolezza del rischio, ma anche con la certezza che non si può restare fermi davanti al dolore degli altri. La sua scelta di vivere a Gaza risale al 2006, subito dopo gli studi universitari. Una decisione maturata lentamente, come una chiamata interiore. «Ho scelto di vivere dove il mondo sceglie di voltarsi dall’altra parte», racconta. «Perché lì, nel cuore della distruzione, c’è ancora chi resiste, chi ama, chi sogna».

Da allora, la sua vita è diventata un atto di testimonianza. «Nessuno deve mai rimanere solo»: non un semplice motto, ma un giuramento condiviso con i compagni di bordo della Flotilla. Un patto di fratellanza stretto in mezzo al mare, quando la paura lasciava spazio alla fede nella vita, nel prossimo, nella libertà.

Poi è arrivato il terrore. Il viaggio della speranza si è trasformato in un incubo quando la nave fu fermata. «Ci hanno ammanettati e messi in ginocchio. Io sono rimasto così per due ore, con la fronte contro il pavimento. Accanto a me qualcuno sveniva, altri venivano presi a calci e pugni».

La voce di Fullone si incrina. Nei suoi occhi passano immagini che non hanno mai smesso di fargli male. «Accanto a me c’era Noah», racconta. «Una ragazza con passaporto israeliano. Aveva rifiutato di prendere la cittadinanza. Era irriconoscibile, il volto trasformato dalla paura e dal dolore. Ma nei suoi occhi ardeva ancora una luce, quella che nessuna violenza può spegnere».

Dopo l’arresto, Fullone rifiutò di incontrare la direzione diplomatica a Tel Aviv, così come il console italiano. In segno di protesta, in alcuni momenti rifiutò anche acqua e cibo. Un gesto di coerenza estrema, forse di orgoglio, ma soprattutto di dignità.

Oggi, guardandolo parlare, si avverte che quella nave non è mai davvero tornata in porto. È rimasta sospesa nel suo sguardo, nel suo modo di pesare le parole, nella sua fatica di ricordare. Vincenzo Fullone non ha cercato l’eroismo, ma la giustizia. E da quella scelta — così pura, così terribile — ha tratto il senso stesso della sua vita. Perché infondo, il coraggio non è restare umani, anche quando il mondo ti insegna a smettere di esserlo.