In un Paese come l’Italia, dove la durata media di un governo sfiora il battito d’ali di una farfalla, mille giorni sono un evento. E lo sono ancora di più in un’epoca come questa, segnata da guerre, pandemie, tensioni sociali, instabilità economica e fratture politiche. Giorgia Meloni, prima donna premier della Repubblica, ha resistito. Non ha travolto, non ha rivoluzionato, ma ha tenuto la barra dritta. E, diciamolo, non ha fatto i disastri che altrove hanno rovinato governi più esperti e blasonati.

Non tutto, però, è oro. Anzi. Il panorama attorno al suo esecutivo è spesso deprimente. Una classe dirigente traballante, con figure che oscillano tra l’inadeguato e il grottesco: Donzelli, Santanchè, Lollobrigida, Delmastro e lo sparo di Capodanno. Come dimenticare Sangiuliano e il caso Boccia, ridicolo come un filmetto anni ‘70 al punto da far sghignazzare persino i più cinici. E poi le gaffe, le fughe, le tensioni con la magistratura, il balletto sterile e costoso sull'Albania, il nulla cosmico sulle riforme. E che dire del caso Almasri?

La comunicazione è tutta giocata sul controllo. Meloni parla poco, ma quando lo fa è attraverso un video registrato, senza contraddittorio. Niente conferenze stampa classiche, nessun giornalista a fare domande vere. Solo dirette social, sfondo istituzionale, tono grave, verbi d’azione. È una comunicazione che ha smesso di essere spontaneità per diventare presidio. Il risultato? Meloni non rischia, ma non sorprende nemmeno più. Ma senza cadute clamorose, dando sempre l’impressione di avere tutto sotto controllo. Anche quando non è così.

Molto bene l’introduzione del reato di femminicidio, meno l’introduzione di nuovi reati inutili e spesso anticostituzionali tanto da portare i giudici a bocciare un Decreto Sicurezza tanto inutile quanto propagandistico. Ma Giorgia ha mostrato doti incredibili di incassatrice, nulla sembra mai toccarla davvero, nessun schizzo di fango vola fino a lei. Resta solida nelle preferenze popolari e nel favore dell’elettorato. In fondo piace almeno un po’ anche a chi non la vota.

Eppure, in questa rigidità da bunker, la premier ha mantenuto alcune coordinate: atlantismo saldo, posizione chiara sull’Ucraina, ruolo centrale al G7 in Puglia. Ha saputo navigare tra Bruxelles e Washington, parlando con Ursula von der Leyen e flirtando con Donald Trump. Una mossa audace e ambigua, come molte delle sue scelte internazionali. Ma che hanno permesso al’Italia di non restare isolata come un Ungheria qualunque.

Non solo, nel frattempo l’Italia cresce. Poco, ma cresce. L’occupazione ha toccato record storici, lo spread è crollato, i contratti stabili aumentano. La Meloni lo ripete come un mantra: “Un milione di posti di lavoro creati”. Ed è vero, anche se la qualità di quel lavoro, spesso, è tutta da discutere.

La riforma del premierato langue, quella della giustizia, pure. Il federalismo fiscale è una zavorra pensata solo per placare Salvini, che nel frattempo si conferma il più impopolare tra i ministri. E anche la giustizia, nonostante il passo spedito, resta terreno di scontro ideologico più che di cambiamento reale.

Il Sud resta al palo. Il Ponte sullo Stretto è diventato una barzelletta riciclata, e Caivano, nonostante i proclami, è ancora lì che aspetta. Le riforme strutturali non si vedono, il Pnrr arranca e la pressione fiscale non scende davvero. Il Superbonus è stato smantellato, ma senza un’alternativa forte. Si è smontato, più che costruito.

Nei sondaggi, la luna di miele con l’elettorato non è ancora finita. Il 34% degli italiani dà un giudizio positivo al governo. I ministri più apprezzati? Giorgetti e Crosetto, tecnici solidi e silenziosi. Il peggiore, per distacco, è Salvini, che continua a vivere di rendita su slogan che non bucano più.

E poi c’è la dimensione personale. La Meloni che si separa da un Giambruno imbarazzante in diretta social. Ma anche la Meloni mamma attenta e premurosa, capace di parlare alla gente, a toccare i registri giusti. Una donna forte, che non si fa mettere i piedi sulla testa da nessuno. Ma che per definirsi usa termini al maschile, rinunciando alla possibilità di regalare alle donne la soddisfazione di riconoscersi in lei.

Certo, mille giorni non bastano per giudicare un'intera traiettoria politica, ma bastano per comprendere il metodo. Meloni non è la leader del cambiamento, è la leader della tenuta. E questa tenuta è fatta di equilibrio precario, di zigzag tattico, di silenzi studiati più delle parole. L’effetto è quello di una politica che non si espone, non innova, ma presidia. Un bunker, non un laboratorio.

Il suo linguaggio si è fatto meno ideologico, ma anche più anodino. Le virate a destra – quelle vere, identitarie – non hanno avuto cittadinanza sotto il suo governo e si sono spesso smussate nelle pieghe della diplomazia internazionale. Niente svolte negative sui diritti civili, niente leggi clamorose, solo qualche grido sui rave, sul gender, sull’immigrazione, poi rientrato nel guscio. Anche sui temi cari all’estrema destra, Meloni ha scelto la via del freno a mano tirato. Per convinzione o per calcolo, resta un mistero. Ma il risultato è un governo conservatore più nel metodo che nella sostanza.

C’è poi la partita interna. Fratelli d’Italia è diventato il partito pigliatutto del centrodestra. Ha svuotato la Lega, superato Forza Italia, e ora vive il paradosso di dover governare con alleati deboli ma indispensabili. E qui Meloni mostra una qualità rara nella politica italiana: la gestione delle alleanze. Non ha rotto, non ha accelerato, non ha lasciato cadere. Ha tenuto tutti nel recinto, anche a costo di rallentare tutto il resto.

Ma se la politica è anche visione, qui le crepe si fanno sentire. Non c’è un’idea di Paese forte e condivisa che emerga da questi mille giorni. C’è un’Italia che resiste, ma non una che progetta. Che gestisce, ma non disegna. Che resta a galla, ma non nuota. È una strategia? Forse. Ma rischia di diventare una condanna.

Sul piano sociale, i segnali sono contraddittori. L’inflazione ha morso le famiglie più fragili, la sanità pubblica resta in affanno, l’istruzione langue. E le risposte del governo, spesso, si sono limitate alla propaganda. Le vere riforme strutturali sono rimaste nei cassetti. Il Paese si muove per inerzia, con qualche buon dato economico ma senza slancio.

Eppure, la Meloni resta forte. Nei sondaggi personali tiene meglio del suo governo. È la figura che garantisce stabilità. E in tempi instabili, questo basta. La sua comunicazione lo sa, e per questo insiste sull’idea di una premier “normale”, che lavora, che resiste, che non si lamenta. Il problema è che a furia di tenere il profilo basso, il rischio è di far dimenticare anche le ambizioni.

Il consenso non è un destino, e l’usura arriverà. A quel punto serviranno idee, visione, coraggio. Per ora, basta la tenuta. Ma la storia non premia chi resta fermo: premia chi decide la direzione. E lì, Giorgia Meloni non è ancora arrivata. Mille giorni dopo, è ancora in volo. Con il paracadute pronto. Ma senza una vera rotta.