Dopo oltre un anno di indagini silenziose, condotte con tenacia dalla Procura di Reggio Calabria, è arrivata la svolta nel caso che nel luglio 2024 sconvolse la città. Sara Genovese, 25 anni, residente nel quartiere di Pellaro, è stata arrestata con l’accusa di duplice infanticidio.

Una storia che fa rabbrividire, che sembra uscita da un film dell’orrore ma che, invece, è crudelmente reale. I due neonati, gemellini, erano stati partoriti in casa e poi soffocati. I loro corpicini, avvolti in una coperta, furono trovati dai genitori della ragazza dentro un armadio, nascosti tra gli abiti, attirati dal cattivo odore che proveniva dal mobile. Una giovane donna, adottata e che lavorava in un centro commerciale. Una vita apparentemente tranquilla fino a quel ricovero sospetto.

La giovane, ricoverata al Gom (Grande Ospedale Metropolitano) per una forte emorragia, aveva fin da subito negato di essere incinta, dichiarando di avere avuto soltanto un malore. Ai medici, ai familiari, agli inquirenti ha sempre detto la stessa cosa: «Non ho mai avuto rapporti sessuali. Non ero incinta». Eppure, le prove biologiche e il Dna non hanno lasciato spazio a dubbi. I due neonati erano vivi al momento del parto e sono morti per soffocamento. Negava tutto poi, quando la tragedia è emersa in tutta la sua brutalità, il silenzio.

Una verità agghiacciante

A distanza di mesi, intercettazioni telefoniche, messaggi privati e un’indagine capillare condotta dalla squadra mobile hanno permesso di ricostruire una realtà ben più oscura di quanto si potesse immaginare. Su richiesta del procuratore Giuseppe Borrelli e del sostituto Chiara Greco, il GIP ha disposto l’arresto di Sara Genovese. Alla giovane è stata concessa la detenzione domiciliare con l’obbligo del braccialetto elettronico.

Ma quello che ha fatto precipitare ulteriormente la vicenda in una spirale di orrore è il sospetto che non si sia trattato di un gesto isolato. Le indagini hanno infatti portato alla luce un precedente inquietante: nel 2022, quando Sara aveva solo 22 anni, avrebbe vissuto una situazione analoga, sempre con lo stesso fidanzato, anch’egli oggi indagato per favoreggiamento. Secondo gli inquirenti, anche in quell’occasione la ragazza avrebbe partorito in segreto e poi soppresso il neonato, nascondendone il corpo.

Un male che si consuma nel silenzio

Le domande che emergono da questa vicenda sono molteplici e brucianti.
Come può una giovane donna portare avanti una gravidanza gemellare nel completo silenzio, senza che nessuno – amici, colleghi, genitori – si accorga di nulla?
Come si può vivere in una casa condivisa con i propri cari e nascondere un simile peso, nel corpo e nella mente, fino a un gesto irreparabile?
E ancora: cosa può portare una ragazza così giovane a compiere un gesto tanto estremo?

La storia di Sara Genovese non può essere liquidata solo come un fatto di cronaca nera. È il sintomo di un disagio profondo, di una solitudine invisibile che, evidentemente, nessuno è riuscito a cogliere. Non la famiglia, che pare ignara di tutto. Non i colleghi del centro commerciale dove lavorava. Non la società, che sembra aver fallito nel riconoscere i segnali di un malessere psicologico che urlava silenziosamente.

Una ferita collettiva

Nel frattempo, sono state disposte ulteriori perquisizioni con l’uso di cani molecolari e georadar nei terreni di proprietà della famiglia e del fidanzato, nel timore – mai così fondato – che vi possano essere altri resti umani.

È inevitabile, in casi come questo, tornare con la memoria ad episodi simili: uno su tutti, quello avvenuto a Parma qualche anno fa, con un altro infanticidio nascosto tra le mura domestiche, figlio della vergogna, del rifiuto e dell’abbandono. Un tragico déjà-vu che interroga non solo la giustizia, ma anche la nostra coscienza collettiva. Perché non si può morire così, appena venuti al mondo.
E non si può neanche vivere così, soli nel proprio dolore, fino a diventare carnefici di se stessi e degli altri.