L’ordigno esploso sotto l’auto del conduttore di Report è più di un’intimidazione: è il simbolo di un clima di odio e delegittimazione verso chi indaga e racconta i fatti
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Nella notte tra il 16 e il 17 ottobre, a Campo Ascolano (Pomezia), una bomba ha squarciato il silenzio e la lamiera: l’auto del giornalista Sigfrido Ranucci, giornalista di Report, è stata distrutta da un ordigno esplosivo. Accanto, la vettura della figlia, danneggiata anch’essa. È un’immagine che brucia, una ferita inferta non soltanto a un uomo, ma a un principio: quello della libertà d’informazione, che da secoli è il respiro più puro della democrazia.
Un giornalista che viene colpito non è mai solo una persona minacciata: è la verità che viene imbavagliata, è la coscienza civile che si tenta di zittire. Ranucci aveva da poco annunciato il ritorno del suo programma, Report, uno dei pochi spazi rimasti in cui il giornalismo si misura ancora con il coraggio, non con il consenso. Il messaggio è chiaro, e tremendo: la paura come risposta alla trasparenza, l’intimidazione come argomento contro la ricerca dei fatti.
«C’è un clima di isolamento e di delegittimazione nei miei confronti», ha dichiarato Ranucci al Corriere della Sera. «Negli ultimi mesi ho ricevuto minacce, un proiettile di P38, pedinamenti, dossieraggi. Mia figlia aveva parcheggiato accanto alla mia auto venti minuti prima dell’esplosione: avrebbero potuto ammazzare mia figlia». In queste parole, l’eco di un’Italia che si credeva finita, quella dei silenzi forzati, delle voci messe a tacere, dei giornalisti ridotti a ombre.
Ma il problema non è solo l’atto in sé, quanto il terreno che lo ha reso possibile. Quando un giornalista viene isolato, deriso, delegittimato, si prepara il terreno al colpo. È il discredito, prima della violenza fisica, a uccidere la libertà d’informazione. L’attacco a Ranucci è dunque il frutto di un clima culturale che tende sempre più a demonizzare chi indaga, chi chiede, chi non accetta la superficie delle cose.
Il giornalismo d’inchiesta non è un lusso: è un dovere civile, un atto di resistenza. È l’arte difficile di svelare ciò che qualcuno vorrebbe restasse nascosto. E per questo, ogni volta che si tenta di colpirlo, si colpisce la democrazia stessa. Non si tratta soltanto di difendere un professionista, ma di difendere il diritto di un popolo a conoscere, a capire, a giudicare.
Ci sono ali che non devono mai essere tarpate: quelle dell’informazione libera, che vola sopra i ricatti, le minacce, i veleni. Senza di essa, la società precipita nella menzogna istituzionalizzata, nella paura che diventa norma. Ogni bomba contro un giornalista è una bomba contro la Repubblica.
Oggi, mentre le macerie di quell’auto fumano ancora, occorre ricordare che la libertà di stampa non è un dono irrevocabile, ma una conquista fragile, quotidiana, che chiede il coraggio di chi scrive e la solidarietà di chi legge.
Perché un Paese che lascia soli i suoi giornalisti, domani lascerà soli anche i suoi cittadini.