A Brooklyn non servono gli schermi per capire che qualcosa sta accadendo. È sufficiente ascoltare l’aria: densa, elettrica, vibrante come un respiro trattenuto troppo a lungo. Fuori dal Paramount Theatre c’è chi balla, chi stringe in una mano un caffè e nell’altra la speranza, chi ripete: «È la nostra notte, finalmente». Quando le tv annunciano il verdetto, appena mezz’ora dopo la chiusura dei seggi, la città esplode in un boato che rimbalza tra i palazzi e si mescola ai clacson, ai cori improvvisati, ai pianti che non hanno nulla di triste.

Zohran Mamdani ha 34 anni e cammina verso il palco come un uomo che capisce il peso di ciò che sta per dire. Figlio di migranti, nato in Uganda, madre regista di origine indiana, padre professore: la biografia che fino a ieri raccontava una storia personale oggi diventa manifesto politico. Indossa un sorriso rispettoso e la consapevolezza feroce di chi sa che qui, stasera, non si celebra una vittoria soltanto sua.

«Il futuro è nelle nostre mani», esordisce guardando la platea come se volesse abbracciarla tutta. «Amici miei, abbiamo rovesciato una dinastia politica». Attorno, giovani con i capelli blu e giacche vintage alzano le braccia al cielo; ragazzi con la kefiah applaudono accanto a studenti con la kippah; famiglie del Queens e di Harlem stringono bandiere americane accanto a quelle palestinesi. Una marea umana che canta, che ride, che sembra uscita direttamente da un futuro che non aveva ancora trovato chi lo incarnasse.

Poi Mamdani cambia tono. Fa una pausa che sa di silenzi antichi. «Donald Trump, so che stai guardando», dice fissando una telecamera. «Turn the volume up». Alza il volume. Le luci del teatro tremano nel fragore dell’urlo che si alza dalla sala. Non è derisione, non è rabbia. È un invito: ascolta, guarda, prendi nota. New York si è svegliata, e non sarà più come prima.

La città che fu culla di Trump manda un messaggio al suo vecchio figlio ribelle: non sei più tu la voce che scandisce il tempo. «New York sarà la luce in questo momento di oscurità», proclama Mamdani. «Per arrivare a uno di noi, dovrai passare attraverso tutti noi».

Questa vittoria è costruita mattone dopo mattone da 104.000 volontari — studenti, rider, giovani lavoratori, figli di immigrati — che hanno bussato a 3 milioni di porte e fatto più di 4,4 milioni di telefonate. È un popolo nuovo che decide di votare, e di farsi vedere. È la generazione che ha respirato la pandemia, visto crollare certezze economiche e morali, visto sparire la promessa americana e ha deciso che, se nessuno la manteneva, l’avrebbe costruita da sola.

Con il 90% dei voti scrutinati, Mamdani doppia gli avversari: 50% contro il 42% di Andrew Cuomo e il 7% del repubblicano Curtis Sliwa. Un trionfo immediato, travolgente, brutale nella sua chiarezza. Cuomo, dinastia e memoria viva del potere democratico tradizionale, appare accanto alle figlie e annuisce: è la resa di un mondo che non parla più alla propria città. Sliwa riconosce subito la sconfitta, promette di vigilare sulla sicurezza — la sua bandiera storica — e abbandona il palco con una compostezza che sa di inevitabile.

Nelle strade, intanto, non è semplice festa. È catarsi. Una donna anziana sorride guardando i ragazzi danzare e mormora: «Li chiamavano disinteressati». Un ragazzino tiene in mano un cartello fatto a mano: “We are the future, not a footnote”. Un tassista senegalese scatta un video, un negoziante yemenita passa biscotti fatti in casa, una madre latina spinge un passeggino tra i cori. «Questa città è anche vostra», aveva detto Mamdani pochi minuti prima. E loro, adesso, se la prendono sul serio.

Ma stanotte non è solo New York a ribaltarsi. Dalla Virginia al New Jersey, fino a Detroit, la mappa vira blu. Abigail Spanberger diventa la prima governatrice donna della Virginia. Mikie Sherrill conquista il New Jersey. Mary Sheffield scrive una pagina di storia a Detroit. La East Coast parla chiaro: non oggi, Donald. Non stanotte.

E così, mentre le urla riempiono i vicoli di Brooklyn e le vetrine riflettono una città che si sente giovane di nuovo, Mar-a-Lago resta in silenzio più a lungo del previsto. Trump non commenta, poi sbotta su Truth cercando di spiegare, minimizzare, scaricare. Ma il punto non è cosa dice. È come suona la sua voce, improvvisamente più piccola di fronte a un palco di ragazzi che cantano con gli occhi lucidi.

New York, stasera, ha deciso di respirare diversamente. E nel rumore gioioso di questa notte, in quel coro che non ha bisogno di slogan prestampati, c’è qualcosa di antico e di nuovissimo: la sensazione che la politica, per una volta, sia tornata carne, strada, comunità.

«Abbiamo girato pagina», ha detto Mamdani. Forse. O forse l’hanno strappata i suoi elettori, per riscriverla di nuovo. Con la loro lingua, i loro nomi, il loro futuro.

E per chi ieri notte camminava per le strade di Brooklyn, tra tamburi, cappotti bagnati e occhi pieni di luce, una verità era già scolpita nell’alba che arrivava lenta sopra Manhattan: qualcosa, questa volta, è davvero cambiato.