In mille pagine la Procura Generale prova a dimostrare l’esistenza di un sistema massonico deviato nel territorio di Vibo Valentia. L’accusa chiede di ritenere provata la responsabilità penale del politico di Piscopio: gli incontri con D’Amico e il consenso elettorale
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Massoneria deviata, ‘ndrangheta e procacciamento di voti alle elezioni. Una parte significativa della memoria da mille pagine depositata dalla Procura Generale di Catanzaro nel maxiprocesso d’appello, nato dall’operazione Rinascita Scott, prende in esame le risultanze investigative che hanno portato a esplorare l’intreccio tra logge occulte, politica e criminalità organizzata nel Vibonese. Un “sistema” ancora in buona parte da definire e approfondire con nuove inchieste e che muove dalle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia e dal compendio intercettivo agli atti dell’inchiesta. È Cosimo Virgiglio di Rosarno, commercialista, ex imprenditore, ex doganalista, ex uomo di fiducia del boss Rocco Molè di Gioia Tauro (poi ucciso nel 2008) il più importante testimone dell’accusa che apre le “porte” ai magistrati della Dda di Catanzaro per la possibile decifrazione di quella rete di legami occulti di natura massonica che ha quale epicentro Vibo Valentia. Virgiglio, dopo l’iniziazione all’ordine del Santo Sepolcro a Roma, viene infatti iniziato alla massoneria entrando a far parte del Gran Loggia dei Garibaldini d’Italia con sede a Vibo Valentia ma ramificazioni occulte dal Crotonese sino a Tropea, passando per Nicotera e Limbadi. Proprio in tali paesi del Vibonese, a detta di Cosimo Viriglio, avrebbe operato la loggia occulta denominata “Amor di Patria” nella quale sarebbero confluiti anche ex sindaci, professionisti e personaggi della ‘ndrangheta come Giovanni Mancuso, quest’ultimo in ogni caso non imputato nel maxiprocesso Rinascita Scott.
La ‘ndrangheta e il consenso elettorale
Le logge sarebbero state anche il collante per la ricerca del consenso elettorale laddove in ogni caso la ‘ndrangheta si sarebbe mossa autonomamente da tempo. Il maxiprocesso vede infatti tra gli imputati anche l’ex consigliere regionale del Pd – già assessore provinciale a Vibo ed ex consigliere comunale – Pietro Giamborino, per il quale la Procura Generale ha chiesto la condanna a 20 anni di reclusione per il reato di associazione mafiosa (clan dei Piscopisani) a fronte della condanna a un anno e 6 mesi per traffico di influenze illecite rimediata in primo grado ad opera del Tribunale collegiale di Vibo Valentia. La pubblica accusa valorizza le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, Raffaele Moscato (clan dei Piscopisani) e Andrea Mantella di Vibo Valentia in ordine al supporto elettorale dei clan di Piscopio, Vibo e San Gregorio d’Ippona in favore dell’allora candidato Pietro Giamborino nei cui confronti il Tribunale in primo grado aveva spiegato nelle motivazioni della sentenza di non essere riuscito ad individuare le tornate elettorali nelle quali il politico sarebbe stato sostenuto dai clan. La Procura Generale le individua a partire dalle elezioni del 2002 e in ogni caso spiega nella propria memoria che tale individuazione appare “superflua rispetto al dato oggettivo che si intende valorizzare, così come non rileva se il pacchetto di voti sia stato indicato da un collaboratore in una tornata elettorale e da un altro in una tornata elettorale successiva. Così come non rileva nel numero esatto di votanti effettivi poiché sarà lo stesso Pietro Giamborino nelle captazioni a scandire la collocazione temporale che il Tribunale sostiene di non riuscire a circoscrivere”. Per la Procura Generale il dato che rileva è che la ‘ndrangheta ha avuto, “a partire dal 2002, un ruolo attivo nel procacciamento di un pacchetto di voti garantito dalla cosca in favore di Giamborino e di cui il clan teneva il conto attivandosi per promuovere l’attività politica di Giamborino fin dalla tornata elettorale del 2002, ovvero fin dalla dal primo rilievo emerso a dibattimento: la conversazione menzionata dall’investigatore Lagumina, non rinvenuta dal Tribunale e non periziata – ricorda la Procura generale – ed afferente al processo Rima contro il clan Fiarè”.
Manca però incredibilmente l’audio di tale intercettazione finita nell’inchiesta “Rima” scattata nel 2005 e la stessa Procura Generale ricorda che “non si è stati in grado di rinvenire l’audio corrispondente alla fonte di prova intercettata nell’ambito del procedimento Rima”. L’accusa valorizza anche il legame tra Pietro Giamborino e Pino Galati, alias “Pino Il Ragioniere”. Quest’ultimo – coinvolto nelle operazioni “Crimine” e “Rimpiazzo” – viene ritenuto il capo società del nuovo “locale” di ‘ndrangheta di Piscopio. Giamborino e Galati sono primi cugini e i due - ad avviso della Procura Generale - si sarebbero incontrati diverse volte a Piscopio in maniera riservata per affrontare le seguenti tematiche: “attività di elusione delle indagini condotte dalla polizia giudiziaria e conoscenza preventiva di eventuali operazioni repressive che li interessano; gestione dei lavori pubblici a Piscopio, loro assegnazione in subappalto a ditte amiche della cosca; interventi a favore di soggetti vicini per il recupero di beni sottratti, nella più tipica forma del controllo delle attività illecite condotte sul territorio; risoluzione di pratiche amministrative di interesse di Galati da parte di Pietro Giamborino presso l’amministrazione comunale di Vibo Valentia”. Le risultanze dibattimentali fanno poi riferimento a tre incontri avvenuti nelle date del 22 marzo 2018, 25 luglio 2018 e 27 luglio 2018, che per la Procura generale “pongono delle granitiche certezze circa l’interessamento da parte di Pietro Giamborino nel ricercare notizie sullo stato delle indagini susseguenti alle propalazioni dei due collaboratori di giustizia Andrea Mantella e Raffaele Moscato”. Pietro Giamborino avrebbe quindi cercato “di acquisire informazioni attraverso il solido rapporto di amicizia che lo lega ormai da quasi venticinque anni” con un giornalista vibonese finito anche lui sul registro degli indagati (con l’ipotesi di reato di rivelazione di segreti d’ufficio aggravata dalle finalità mafiose) nell’ambito dell’inchiesta Rinascita Scott e la cui posizione è stata stralciata dalla Dda di Catanzaro. “Dalle captazioni raccolte il 22 marzo 2018 – evidenzia la Procura generale – si intuisce che l’argomento fosse già stato trattato altre volte, motivo per il quale i due soggetti intraprendono la conversazione come fosse la prosecuzione di un precedente colloquio”.
D’Amico a casa di Giamborino
La Procura Generale nella memoria d’appello valorizza anche il rapporto che si sarebbe instaurato negli anni tra Pietro Giamborino e l’imprenditore Giuseppe D’Amico di Piscopio, quest’ultimo condannato a 30 anni per associazione mafiosa nel processo “Petrol Mafie”, ed anche con Francesco D’Angelo, alias “Ciccio Ammaculata”, suocero di D’Amico e condannato in “ Petrol Mafie” a 10 anni di reclusione quale capo del vecchio “locale” di ‘ndrangheta di Piscopio. La pubblica accusa svela che “il rapporto con Francesco D’Angelo ed il genero Giuseppe D’Amico è sintomatico dell’attenzione di Pietro Giamborino nel relazionarsi con soggetti potenzialmente lesivi per la sua immagine pubblica. Diversi elementi permettono di dimostrare il coinvolgimento di Pietro Giamborino nel favorire l’assegnazione di alcuni lavori alle imprese di Giuseppe D’Amico, nonché dalle captazioni si rivela un tono di assoluta confidenza sia con lui che con la moglie di questi, e con il suocero Francesco D’Angelo. L’episodio è una visita fatta nel 2018 a Pietro Giamborino e alla moglie da parte di Francesco D’Angelo e Giuseppe D’Amico. Quest’ultimo, invitato al matrimonio di Anna Giamborino (figlia di Pietro) insieme alla moglie, non era potuto andare, motivo per il quale si recava a casa Giamborino per portare il regalo alla sposa. Il 20 Settembre 2018 Pietro Giamborino riceveva una telefonata dalla moglie, la quale lo avvisava che a casa c’era Pino D’Amico. Pietro Giamborino, quindi, lamentandosi di non aver ricevuto un avviso con congruo anticipo, affermava che in ogni caso stava arrivando a casa. Successivamente, Pietro Giamborino – sottolinea la Procura Generale – iniziava ad insistere nel fare una cena sabato con la famiglia D’Amico visto che loro, graditissimi ospiti, non erano potuti essere presenti al matrimonio di Anna Giamborino, figlia di Pietro”.
In altra conversazione intercettata, Giuseppe D’Amico si sarebbe invece “trovato nel 2018 ad interloquire con il cugino presidente della Provincia di Vibo, Salvatore Solano, e il dipendente provinciale Isaia Angelo Capria” (sia Solano che Capria sono imputati nel processo Petrol Mafie). “Durante il pranzo – spiega la Procura Generale – si parlava proprio di Pietro Giamborino quale Uomo, che nel gergo ‘ndranghetista – sottolinea la Procura Generale – rappresenta lo status di uomo di ‘ndrangheta”. A tal proposito Giuseppe D’Amico svelava agli interlocutori di non essersi potuto recare per motivi di salute al matrimonio della figlia di Pietro Giamborino. “Ciò che rileva era il discorso che, qualora avesse presenziato alla cerimonia, il D’Amico si era immaginato di fare di fronte agli invitati, ossia di rivelare la risalente appartenenza di Pietro Giamborino alla criminalità organizzata”. Molti di tali dati sono stati cristallizzati in sentenza dal Tribunale di Vibo. Sentenza che la Procura Generale ha impugnato per chiedere alla Corte d’Appello di Catanzaro la riforma del verdetto di primo grado e la condanna dell’imputato Pietro Giamborino per il reato di associazione mafiosa.


