Centinaia di migliaia di immagini di vita quotidiana, magari condivise sui propri social, sessualizzate e messe alla mercé di tutta Italia. La chiusura di Phica.net, il blog sessista serrato nei giorni scorsi, ha riportato alla luce il problema della condivisione non consensuale di immagini. È successo anche a Dalia Aly, attrice, attivista e femminista cosentina, che si è ritrovata sul sito. Anche grazie alla sua segnalazione la vicenda è esplosa in Calabria, visto che c'era un topic dedicato a ragazze nostre corregionali.

Lo stato d’animo di Dalia, che contattiamo pochi giorni dopo la chiusura del sito, è diviso a metà: «C’è una grande sensazione di positività nei confronti del futuro data dalla consapevolezza che, nell’eventualità in cui una donna stia affrontando una situazione di violenza, esiste una collettività pronta a reagire: sorelle, persone che potrebbero vivere la stessa cosa o che purtroppo l’hanno già vissuta, pronte a rispondere».

A questa posizione fa però da contraltare la certezza che il fenomeno della condivisione non consensuale di immagini su internet non si sia fermato con la chiusura del blog: «Si tratta però di una vittoria mutilata, perché la chiusura di un sito non ferma la violenza: quegli utenti si sposteranno altrove a condividere senza consenso gli stessi materiali». Un piccolo passo in avanti, dunque, «nella comprensione sociale di quanto questa violenza sia normalizzata e radicata nella quotidianità di tutti noi».

Chiusura di Phica.net, Dalia Aly: «Siamo tutte a rischio»

L’amarezza nell’essere consapevoli che molti utenti si sposteranno su altre piattaforme è evidente anche quando parliamo con Dalia Aly di come, a essere coinvolte, siano state persone comuni, ritratte magari nella vita di tutti i giorni. Un post su Instagram, una foto su Whatsapp, tutto diventa sessualizzato: «Molto spesso si pensa che per vivere una violenza del genere bisogna essere esibizioniste. Non è assolutamente così: i casi più noti – spiega – sono quelli delle persone famose, ma solo perché sono più ricercate. In realtà questa violenza ha la potenzialità di colpire tutte».

Un cambio nella cultura: «Stop a colpevolizzare chi subisce il revenge porn»

Sono trascorsi circa dieci anni da quando l’opinione pubblica ha scoperto cosa fosse il revenge porn. «La prima reazione comunitaria, anche da parte delle forze dell’ordine e dei familiari che avevano perso persone a causa della condivisione non consensuale di materiale intimo, è stata quella di consigliare alle ragazze di non fotografarsi o registrarsi». E ha funzionato? «Col senno di poi, possiamo dire di no: nel 2020, complice il Covid, i casi di condivisione non consensuale sono aumentati del 300%».

E non bisogna demonizzare, spiega Dalia Aly, il voler vivere la propria vita sessuale anche tramite telefono: «Dire a una ragazza che ha sbagliato a registrarsi significa porre sulle sue spalle la responsabilità della violenza che qualcun altro ha applicato», spiega Aly, che poi aggiunge: «Questo è lo stesso meccanismo per cui diciamo alle donne che per non essere stuprate non devono bere, non devono indossare la minigonna o uscire tardi la sera». Colpevolizzare chi subisce la violenza, insomma. Un paragaone che Aly afferma con ancora più forza: «Così continuiamo a porre la responsabilità della violenza di genere sulle ragazze, senza responsabilizzare chi quella violenza la compie». 

Da “vittima” a “sopravvissuta”, nella terminologia il contrasto alla violenza

Dalia Aly è sopravvissuta a un caso di Revenge Porn. L’utilizzo del termine “sopravvissuta” non è casuale: introdotto negli ultimi anni nel gergo comune per chi subisce questi reati, si oppone all’utilizzo del sostantivo “vittima”: «L’ho usata anche io quando mi è successo, ma la sentivo limitante: ti colloca in una dimensione passiva, di oggetto della violenza. Il termine “sopravvissuta”, invece, significa che sei riuscita a uscirne: è un messaggio positivo per chi anche oggi – spiega l’attivista – si considera una vittima». 

Un messaggio di forza, dunque, ma la strada è ancora molto lunga: «Dobbiamo insistere sul consenso – spiega Aly – perché il valore del sì di un uomo deve avere lo stesso peso del sì di una donna. Partendo da qui – conclude – si spera possiamo arrivare a una vera parità».