L’epilogo

Comune di Rende sciolto per mafia, vincitori e vinti della Guerra dei dodici anni

Il provvedimento del ministero dell’Interno chiude una lunga stagione di conflitti politici e giudiziari, ora oltre Campagnano comincia la fase della ricostruzione con l’intermezzo del commissariamento

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di Marco Cribari
28 giugno 2023
15:29

Il Municipio di Rende è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Un’eventualità che era nell’aria e che dopo nove mesi diventa cronaca che s’intreccia con la storia. Non solo per il richiamo a date evocative come quella del primo settembre – lo scoppio della Seconda guerra mondiale nonché l’avvio dell’operazione “Reset” – o per il fatto che un epilogo così, oltre Campagnano, rappresenta una novità assoluta.

Il tratto più epocale della vicenda è che il provvedimento emesso dal ministero dell’Interno chiude di fatto un cerchio, spegne un riflettore che era puntato sulla città fin dal dicembre del 2011, illuminandola di luce sinistra. Risale ad allora, infatti, l’origine del caso Rende, con il primo accesso di una commissione antimafia nelle stanze del Comune, anche in quel caso preceduto da una bufera di sospetti che si abbatte su ex sindaci e amministratori locali come Umberto Bernaudo, Pietro Ruffolo e Giuseppe Gagliardi. In quel caso, all’avanzata giudiziaria fa seguito la ritirata su ambedue i fronti: il Municipio non sarà sciolto e i politici sotto accusa per mafia – un gruppo al quale nel frattempo si è aggiunto Sandro Principe – usciranno assolti dai processi che li riguardano.


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È una vicenda ancora in sospeso poiché ferma al primo grado di giudizio, così come in sospeso è quella che ci riporta all’attualità. Anche in questo caso, infatti, i guai giudiziari di Marcello Manna e di qualche suo assessore (Pino Munno in primis) sono ancora ben lungi dall’essere risolti. Nell’attesa del giudizio finale, però, è arrivato il decreto che da un lato sancisce la fine anticipata del suo secondo mandato da sindaco e dall’altro pone un’ipoteca sul futuro prossimo della città che per un anno e mezzo sarà amministrata da un commissario. A marcare la differenza sono i dettagli: undici anni fa, un rischio simile fu scongiurato dalla decisione dell’allora primo cittadino Ottavio Cavalcanti che, seppur non indagato dalla Dda, decise di rassegnare in anticipo le dimissioni. Sacrificio ininfluente il suo, considerato quello che sarà poi il verdetto della commissione.

Diversamente, la scelta di restare in sella fino all’ultimo, operata dal suo successore, comporta oggi delle conseguenze: impone i tempi del commissariamento. Qualcuno dirà che se Cavalcanti non si fosse fatto da parte, l’orientamento dei commissari sarebbe potuto anche mutare. Altri rileveranno che il mancato scioglimento di un decennio addietro possa aver influenzato, anche solo in termini di opportunità, la decisione odierna del Ministero. Discorsi validi entrambi in ottica speculativa, ma che non risolvono gli enigmi connessi al caso Rende, non spiegano le ragioni per cui da una definizione virtuosa di “Modello” si è passati a identificare la città con quella meno lusinghiera di “Sistema”. Anche il colore politico dei governanti c’entra poco.

La prima tempesta scuote un’amministrazione di centrosinistra, l’ultima colpisce al cuore una Giunta “ibrida” come quella di Marcello Manna. E anche i dati di contesto, per quanto comuni alle due vicende, non facilitano la comprensione delle cause, del perché tutto ciò sia accaduto veramente. La miccia che, ieri come oggi, innesca l’incendio è la stessa: Adolfo D’Ambrosio, reggente del clan Lanzino, è lui la presenza “inquinante” che fa da prologo a tutta la storia, il filo rosso che collega il passato al presente, ma neanche lui basta a inquadrare una volta per tutte il problema. Eppure è proprio da qui che bisogna forse ripartire.

Ragionare su ciò che è accaduto per impedire che accada nuovamente. A ben vedere è un’operazione che si celebra alla fine di ogni guerra, spesso in modo poco proficuo, ma tant’è: con lo scioglimento del Comune si conclude di fatto un lungo conflitto che è stato politico ancora prima che giudiziario, un assedio ideale che si è concluso con la caduta, quella sì concreta, del Palazzo. La politica ha ora diciotto mesi di tempo per ricostruire sulle proprie macerie, solo allora la Guerra dei dodici anni a Rende potrà dirsi conclusa per sempre. Alcuni la ricorderanno come guerra di conquista, altri di liberazione, ma non c’è alcun dubbio che lo sia stata di logoramento. Per tutti, nessuno escluso.

Giornalista
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