L’inchiesta "Res Tauro" non ha solo colpito la struttura operativa e finanziaria della cosca Piromalli, tra le più potenti e radicate della 'ndrangheta calabrese, ma ha anche fatto emergere un aspetto umano e familiare fino a oggi rimasto in ombra. Il potere criminale, che nell'immaginario collettivo viene spesso raccontato come compatto, granitico e fedele a un codice d'onore familiare, si rivela invece, alla prova delle intercettazioni, come profondamente segnato da risentimenti, rivalità e fratture insanabili.


Una di queste riguarda Domenico Piromalli, il “fratello diverso”, il medico oncologo che ha scelto di lasciare Gioia Tauro, completare gli studi a Roma e costruirsi una carriera di altissimo livello all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Domenico è stato primario della struttura senologica ambulatoriale e vicesindaco di Peschiera Borromeo, punto di riferimento per centinaia di pazienti e cittadini. Una figura limpida, stimata, profondamente lontana dall’ambiente mafioso da cui proviene. E proprio per questo, oggetto di un astio feroce da parte del fratello Giuseppe, detto "Facciazza", ritenuto il boss della cosca.

È in una conversazione del 2022, intercettata dagli inquirenti, che si coglie con estrema chiarezza il rancore covato dal boss nei confronti dei fratelli. Piromalli Giuseppe, parlando con la moglie Maria Martino, attacca frontalmente non solo Gioacchino e Antonio – rei di aver mal gestito la cosca durante la sua detenzione – ma anche Domenico: «Anche Mimmo, pure lui... non posso non salutarli, sennò poi iniziano i pettegolezzi... ma non li perdono. Mimmo, che ha fatto? È andato al nord, ha studiato, ha fatto il medico, e poi la beneficenza! A chi? Ai poveri!».


Il vero “reato”, agli occhi del boss, non è l’abbandono della 'ndrangheta, ma aver mostrato che si può vivere senza. Che si può avere lo stesso cognome, ma scegliere un'altra strada. In un'altra intercettazione, Giuseppe Piromalli esplode in un monologo colmo di rabbia e sarcasmo: «Ai poveri!...ai poveri! E io vorrei... ora lo vediamo...quando andiamo per sopra...che gli dico io: non ti dimenticare quando fuggivamo...a coprire gli assegni... non ti dimenticare che hai un fratello che ha fatto 22 anni di carcere e 7 di latitanza... e tu, invece, fai beneficenza! Immagine sana... di ‘sta coppola di…!».

Parole che pesano come pietre e che rivelano, senza ambiguità, l’odio di chi ha scelto l’illegalità verso chi ha avuto il coraggio di spezzare la catena. Per Giuseppe, Domenico non è un esempio, ma un traditore, uno snob che si è dimenticato dei “valori” mafiosi. Il paradosso? L'accusa di aver aiutato i poveri e di aver costruito una vita onesta.


Eppure, nelle stesse intercettazioni, emerge chiaramente che Domenico era stato volutamente allontanato dalla Calabria «per evitare che potesse essere coinvolto in operazioni giudiziarie». Come se fin dall’inizio, dentro quella famiglia, ci fosse stata la consapevolezza che in lui ci fosse qualcosa di profondamente incompatibile con il mondo criminale. Un'anomalia, una forma di resistenza silenziosa.

Nato il 14 giugno 1948, Domenico Piromalli si era trasferito al nord, diventando un punto di riferimento non solo nella sanità lombarda, ma anche nella politica locale. Più volte consigliere comunale e assessore ai servizi sociali, ha rappresentato un esempio concreto di cittadinanza attiva e dedizione istituzionale. Domenico è morto nel 2020 a causa di patologie. Di lui resta un ricordo pulito, fatto di servizio, studio, lavoro, onestà. Proprio ciò che i fratelli rimasti nella cosca non gli perdonano.


Questa storia, emersa grazie alle indagini di Res Tauro, è molto più di un dettaglio marginale: è una crepa profonda nell’apparente invincibilità della famiglia mafiosa. Ed è anche una lezione potente per tutti. Perché, come dimostra la vicenda di Domenico, anche dentro una delle cosche più potenti della 'ndrangheta, si può scegliere di stare dall’altra parte. Anche portando un cognome pesante come Piromalli, si può decidere di essere liberi.