Per una volta, parliamo di noi. Non lo facciamo mai, come è giusto che sia, perché nostro dovere è parlare degli altri. Ma questa volta parliamo di una nostra giornalista che non è solo tale, è molto di più: perché lei è una protagonista del territorio, è una donna coraggiosa che ha sempre denunciato il malaffare e la malapolitica, è una combattente per la verità e per l’onestà.

Lei è Francesca Lagatta, attivissima sul Tirreno Cosentino ma riconosciuta e apprezzata in tutta la Calabria, è autrice di inchieste e libri di successo. Più volte minacciata e anche aggredita. Ha appena ricevuto il Premio "Donna e lavoro" nell'ambito della IX edizione del Premio Internazionale Castrovillari Città Cultura.

Francesca, questo premio credo sia per te una ragione particolare di orgoglio, visto che sei stata e sei tuttora la voce alle donne.
«Sì, senza ombra di dubbio. È per me un privilegio enorme poter essere la voce delle donne e in particolare di quelle donne che, per un motivo o per un altro, hanno dovuto rinunciare ai loro sogni e alla loro carriera. Il premio l’ho dedicato a loro. È per questo che, da qual palco importantissimo, ho chiesto maggiore inclusione. Garantire il lavoro alle donne è necessario edè necessario farlo rispettando le loro esigenze e la loro eventuale volontà di diventai madri e crescere i propri figli. Nessuna donna dovrebbe scegliere tra carriera e famiglia, una non esclude l’altra. Ringrazio le associazioni Mystica Calabria e Khoreia 2000 e la giuria di esperti e professionisti per avermi assegnato questo importante riconoscimento.

Ma poi tu sei prima di tutto una giornalista coraggiosa che ha sempre denunciato, mettendoci la faccia e non avendo paura di nulla. Cosa significa per te stare sul territorio, parlare degli altri, combattere per la Calabria. E poi. Operare sul Tirreno Cosentino che negli ultimi tempi è tornato a far preoccupare molto.
«La strada è il mio posto. Ho cominciato a fare questo lavoro perché dentro di me sento fortissimo il senso di giustizia e il modo migliore di onorarlo è dare la voce agli ultimi, ai bisognosi, a chi subisce torti e ingiustizie. Farlo qui è un privilegio doppio. Agli inizi mi dicevano che la Calabria non mi avrebbe aperto le porte, che questa è una terra ingrata. Si sbagliavano. Ho dato tanto ai calabresi e i calabresi mi hanno letteralmente travolto in termini di affetto, di stima, di supporto».

C’è anche è soprattutto da dire che non hai paura? Operando in un territorio difficile.
«Io ho cercato di ricambiare l’affetto dei calabresi nei miei confronti, raccontando sempre la verità, senza sensazionalismo e senza omissioni. L’ho fatto anche quando ho avvertito il rischio. L’ho fatto andando sul campo anche subito dopo un omicidio, dopo una sparatoria, dopo un accoltellamento. Non è sempre semplice, ma lo devo a quanti credono in me».

E sei sul campo in questo periodo in cui si è tornati a sparare e a uccidere.
«Sì, anche e soprattutto adesso che il clima nel territorio del Tirreno cosentino è tornato teso, non arretro di un millimetro. Ad esempio, siamo stati i primi, grazie alla grande squadra di professionisti che è LaC News24, a documentare il recente omicidio di Pino Corallo a Cetraro. Ero lì pochi minuti dopo il delitto, in un contesto assai incerto, a prendermi tutte le responsabilità di un racconto così delicato. Certo, la paura non mi abbandona mai, ma ho imparato a gestirla». 

Sei una giornalista che racconta e denuncia, e questo ti ha procurato anche qualche problema. Di non poco conto.
«Purtroppo è così, ma anche in questo caso ho imparato a gestire la situazione. Una volta mi hanno distrutto l’auto; una mattina, invece, mi sono svegliata e ho appreso che c’erano dei manifesti che mi riguardavano affissi ai muri di tre paesi dell’alto Tirreno cosentino. Contenevano falsità, offese e insulti, ma mi sono fatta una gran bella risata. Ho capito che era un mero tentativo di destabilizzarmi da parte di chi non aveva avuto la sua vendetta in tribunale».

E ci sono stati altri casi utilizzati per intimorirti
«Sì, quando ho rivelato l’esistenza di alcune indagini su una nota banca del territorio. Fui querelata e trascinata in tribunale per tre volte, ma i giudici, tutte e tre le volte, riconobbero la correttezza del mio operato. All’esito del terzo pronunciamento a mio favore, qualcuno stampò e affisse quei manifesti, firmandoli a nome dei soci della banca. L’istituto di credito, dal canto suo, non ha mai preso le distanze da quell’episodio e io non ho mai saputo chi sia stato, anche perché forse non mi interessava neppure saperlo. In fondo, quel gesto sortì l’effetto contrario: mi riempì d’orgoglio».

I clan non ti hanno mai perdonato il tuo impegno per la legalità
«Sí, ci sono gli inseguimenti da parte di alcuni sodali del clan Muto sulla banchina del porto di Cetraro e sempre a Cetraro, ma in tutt’altro contesto, fui aggredita. Successe in ospedale e io ricordo ogni attimo di quel giorno. Era il luglio del 2019, la cittadina era ancora sconvolta per la tragedia di Santina Adamo, una giovane mamma morta tre ore dopo aver dato alla luce il suo secondo figlio per un’emorragia massiva. Le nostre inchieste rivelarono, carte alla mano, che la notte in cui si consumò il dramma, l’emoteca del punto nascita conteneva una sola sacca di sangue».

Scoppiò uno scandalo e la vicenda fece il giro d’Italia
«Esattamente. E questo contribuì ad avviare le ispezioni da parte dell’Asp di Cosenza e del Dipartimento della Salute della Regione Calabria, ma anche da parte del Ministero della Salute. Mi trovavo lì proprio per documentare una di queste ispezioni. Quando il parente di una persona coinvolta nell’inchiesta mi vide nei corridoi della direzione sanitaria, ebbe una reazione spropositata. Tentò di colpirmi ma fortunatamente fui aiutata dai presenti. Tuttavia, riuscì a farmi cadere il computer e il telefono che avevo tra le mani. Si ruppero entrambi. Mi recai al pronto soccorso in stato di shock per sottopormi alle cure del caso. Poco dopo arrivò questa persona a chiedermi scusa e si propose di ricomprarmi gli strumenti di lavoro. Rifiutai, però ci abbracciamo. Compresi il suo stato di profonda disperazione».

LaC, intesa come editori e gruppo di giornalisti, non ti ha mai lasciato da sola, anzi ti ha sempre sostenuto e supportato
«LaC non è solo il network per il quale lavoro ormai da sette anni; LaC è la mia seconda famiglia. Tutti, a cominciare dall’editore Domenico Maduli e dalla direttrice generale Maria Grazia Falduto fino all’ultimo collega arrivato, i direttori, i registi, gli operatori, non ultimo il direttore Franco Laratta, mi hanno sempre trattato con enorme rispetto. Hanno sempre gioito con me e per me per i miei successi, dedicandomi servizi e articoli ogni volta che è stato possibile. Mi hanno sempre dato lo spazio necessario e mi hanno sempre messo nelle condizioni, fisiche e psicologiche, di poter dare il massimo».

Da diversi organi di informazione hai ricevuto importanti proposte di lavoro
«Negli anni ho ricevuto tante proposte di lavoro anche da parte dei media nazionali, ma non so immaginare il mio futuro lavorativo in un posto diverso da questo. LaC è la mia casa».

Nel 2019 hai pubblicato un libro intitolato “Sanità Organizzata"... Quello che si sa oggi, tu lo hai scritto anni fa. Ma possibile che questo settore sia ancora in crisi profonda?
«Purtroppo sì. Nel mio libro spiego come la sanità calabrese, al contrario di quanto si dica e quanto si pensi, riceva fiumi di denaro. Altro che mancanza di fondi. Il problema è tutto lì. Troppi interessi, troppi soldi da gestire nelle mani sbagliate, troppi soldi nelle mani di gente avida e ingorda. Troppi incarichi direttivi affidati ad “amici” incompetenti da sistemare».

Tu parlando del sistema sanitario calabrese hai scritto che è ormai irrecuperabile. Ma perché?
«Perché certe prassi, che io definirei ignobili, sono così tanto diffuse che non basterebbero trenta operazioni giudiziarie a ripulire il sistema. Troppi dirigenti della sanità pubblica hanno interessi nella sanità privata e questo sta facendo danni inquantificabili. Non ho nulla contro la sanità privata, quando questa fa da supporto alla pubblica, ma non dovrebbe mai verificarsi il contrario, altrimenti, come stiamo vedendo, può curarsi solo chi ha la possibilità economica».

Nelle tue inchieste hai chiaramente fatto capire che tutto ciò a cui stiamo assistendo sia un disegno preciso e calcolato.
«Esattamente. I medici che lavorano nel pubblico sono sfruttati, esasperati e a volte sottopagati. Volutamente. I bandi per le assunzioni continuano ad andare deserti perché le condizioni di lavoro proposte sono pessime. Fingono che il problema sia la carenza dei medici, poi, però, nessuno sa spiegare come mai i nostri medici vadano a mille chilometri da casa per andare a ricoprire ruoli di prestigio in strutture pubbliche del nord. La volontà, lo dico senza timore di smentita, è quella di ridurre al minimo le prestazioni sanitarie pubbliche, per “fatturare” con quelle private. Fateci caso: nelle cliniche private non succede quasi mai che si guasti l’apparecchio per le tac, per le risonanze magnetiche, un ecografo, un mammografo. Negli ospedali pubblici, invece, non c’è mai un giorno in cui i pianeti siano allineati. C’è sempre un apparecchio in attesa di riparazione. Sempre, tutti i santi giorni. Nel frattempo, i pazienti, anche quelli che prendono 500 euro di pensione, sono costretti a pagare per farsi curare. Questo la politica lo sa».

Sui tuoi social hai fatto una considerazione molto amara: “Oggi, in giro, c'è un'aria strana. Sembra di essere l'orchestra del Titanic che continuava a suonare mentre stava affondando”
«Sì ed è una sensazione che sento, avverto sempre più spesso anche nelle persone intorno a me. Il mondo è allo sfascio e noi fingiamo una normalità che dalla pandemia in poi non esiste più. Ci dicono che siamo in democrazia, ma nei fatti non decidiamo quasi nulla, subiamo e basta. Anche il diritto internazionale è andato a farsi benedire. Prendiamo l’esempio di ciò che sta succedendo a Gaza. Tutta Italia sta scendendo in piazza a manifestare per cercare di fermare la strage di civili e di bambini, ma non succede nulla. Continuiamo a fare i balletti su Tik Tok, fingendo spensieratezza e sorrisi, come se niente fosse, e la cosa più strana è che non potremmo fare diversamente. In qualche modo dobbiamo andare avanti e cercare di dare un senso alle nostre esistenze».

Ma questo senso di impotenza è lacerante. Non vedi futuro per la Calabria. Ma non possiamo immaginare che questa terra trovi finalmente le ragioni del suo riscatto e della sua crescita culturale e sociale?
«C’è una netta differenza tra la Calabria di vent’anni fa e la Calabria di oggi. Questo è innegabile. I calabresi stanno mettendo in campo ogni iniziativa per cambiare il volto di questa terra ancora oggi quasi sempre accostata solo a povertà, corruzione e ‘ndrangheta. E in parte sono riusciti a fare tanti passi in avanti. Basti pensare all’Unical, che oggi è considerata una delle università migliori, non solo d’Italia, ma d’Europa. Però non è abbastanza».

La Calabria avrebbe quindi bisogno di un cambio di rotta repentino, a partire dalla politica dei piccoli paesi.
«Assolutamente sì. Ci sono comunità che sono feudi dei soliti signorotti. Cambiano i nomi ma il giro è quello. Ci sono piccoli paesi in cui i cittadini vivono da schiavi, da succubi del potere di certi sindaci e dei loro sodali. I comuni diventano centri di collocamento e a forza di sistemare compari e le ditte dei compari, sfuggono le questioni importanti, quelle che contano davvero e che riguardano tutti, nessuno escluso. Questo accade perché in alcune zone della Calabria trovare lavoro è difficile, trovarlo ben remunerato ancora di più, dunque chi ha bisogno si adatta al sistema per questioni di sopravvivenza. La politica, come la sanità, è comandata dal dio denaro e finché sarà così, dubito che le cose potranno cambiare. Tuttavia, non voglio perdere la speranza e voglio confidare nelle nuove generazioni».