La ricostruzione

Dal porto di Gioia agli espropri per il Ponte: la storia della cava di Limbadi e la leggenda criminale di “don Ciccio” Mancuso

La prima inchiesta sui terreni risale a quasi 50 anni fa e racconta la nascita della ’ndrangheta imprenditrice. Ecco come il business sorto intorno al Centro siderurgico e allo scalo merci ha dato il via all’ascesa del più potente clan del Vibonese. Tutto inizia con l’acquisizione di 32 appezzamenti da mettere a disposizione delle ’ndrine del Reggino 

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di Pablo Petrasso
7 aprile 2024
08:00
La cava di Limbadi e, nel riquadro, Francesco Mancuso, considerato capo storico del clan
La cava di Limbadi e, nel riquadro, Francesco Mancuso, considerato capo storico del clan

Dal porto di Gioia Tauro al Ponte sullo Stretto: un cerchio si chiude e nel suo perimetro si inscrive la cava dei Mancuso, nome comune dell’area che, nelle campagne tra Limbadi e Nicotera, ospiterà la discarica monstre per il materiale di risulta dell’opera di cui Matteo Salvini ha fatto un manifesto politico.

“Petto di Braghò”, così si chiama quella zona rurale oggi abbandonata e soggetta agli espropri decisi dal ministero delle Infrastrutture. La cava è finita al centro del caso sollevato ieri da LaC News24. L’amministratore delegato Pietro Ciucci ha annunciato controlli serrati sui passaggi di proprietà in quell’area per sgomberare il campo da dubbi riguardo a eventuali speculazioni della criminalità organizzata, mentre Angelo Bonelli, deputato di Avs, ha chiesto l’intervento della Dda e della Commissione parlamentare antimafia.


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Quei terreni fanno discutere da quasi 50 anni, compaiono in atti giudiziari scritti quando la ’ndrangheta era considerata un’accolita di pastori. E invece i clan cominciavano a macinare affari lucrosi.

1978: la Questura di Reggio racconta gli interessi della ’ndrangheta per il porto di Gioia

Per raccontare questa storia iniziamo dal rapporto firmato dalla Squadra mobile della Questura di Reggio Calabria nel 1978 e finito in un processo che illuminò i business comuni dei clan Piromalli e De Stefano: il mandamento della Piana e quello del capoluogo uniti in nome del denaro. Per gli investigatori era «provata la sussistenza di più associazioni per delinquere che avevano», tra le altre cose, «perseguito l’accaparramento dei profitti derivanti dai servizi di autotrasporti connessi con i lavori portuali nella zona del V centro siderurgico, appaltati dalla Cassa del Mezzogiorno al Consorzio di imprese di Gioia Tauro (Cogitau)». È soltanto un pezzo del sistema, ma è il pezzo che conduce nelle campagne del Vibonese.

La sentenza d’appello di quel processo - emessa il 23 luglio 1979 e divenuta definitiva nel 1982 - attribuisce alla cosca Piromalli il monopolio dei lavori di servizio che sviluppano attorno all’area di Gioia Tauro: il sogno di sviluppo (fallito) del Centro siderurgico e quello del porto si traducono in «autotrasporti, sbancamento e fornitura di materiali inerti». Le motivazioni della pronuncia evidenziano un momento di passaggio che si farà sociologia: la «vecchia mafia» espressione di una società agricolo-pastorale si fa «nuova», figlia «dell’industrializzazione del Mezzogiorno dello sviluppo dell’edilizia pubblica e privata, attorno al quale gravitano interessi per decine di miliardi… con possibilità di guadagni impensati».

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L’affare Limbadi e il monopolio degli autotrasporti: un mare di soldi per i clan

La filiera economica della ’ndrangheta imprenditrice ha due fatti certi, secondo i magistrati che, anni dopo, indagano sul sistema: «il monopolio degli autotrasporti e l’affare Limbadi». A Gioia Tauro il business del Centro siderurgico e del porto fa scoppiare la pace: dai 150 attentati dinamitardi denunciati nel 1974 si passa a zero danneggiamenti a cose e insediamenti industriali. I soldi fanno miracoli. E di soldi ne girano tanti. I giudici calcolano in 2 miliardi e 526 milioni di lire la quantità di denaro finita nell’orbita delle cosche.

L’altra fetta della torta viene servita a Limbadi. È sempre la sentenza emessa nel 1979 a sottolinearlo e a ricostruire la storia.

Francesco Mancuso acquista 32 terreni

La cava, prima che il porto di Gioia Tauro diventi un affare agli occhi dei clan, è un puzzle diviso all’inizio tra 33 piccoli proprietari e poi «acquisito per intero da uno solo di essi». Uno solo: «tale Francesco Mancuso» che ai tempi non è ancora il “don Ciccio” considerato dai pentiti il capo storico di una delle più potenti famiglie di ’ndrangheta. Per i magistrati, quel tale Mancuso è «prestanome dei principali esponenti delle cosche locali». È lui a pagare gli altri 32 proprietari con i soldi ricevuti dalle ’ndrine, che sfruttano la cava «per l’estrazione e conseguente trasporto del materiale lapideo destinato al costruendo porto e V centro siderurgico».

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Il consorzio Cogitau, spiegano i giudici, ha bisogno di inerti: serve una cava nel comprensorio di Gioia Tauro che sia ben collegata con l’area di cantiere. Lasciamo raccontare alla sentenza ciò che accade: «Poteva costituire un’occasione d’oro per i piccoli proprietari dei 32 lotti ricadenti nella zona, i quali avrebbero ben potuto costituirsi in consorzio per la migliore tutela dei propri interessi nei confronti della potente impresa del Nord. E invece no. La mafia allunga i suoi tentacoli e tutto si risolve con la rapidità di un fulmine frustrando le legittime aspettative di quei piccoli proprietari. Esempio emblematico della collusione tra mafia e potere economico».

Nessuno, in quella fase, immagina che Francesco Mancuso possa passare alla storia come il capostipite di una cosca che sarà capace, nel giro di qualche decennio, di pianificare investimenti milionari in euro e, negli anni 90, di sedere al tavolo di Cosa nostra per progettare un assalto allo Stato.

Gli assegni circolari in favore di Francesco Mancuso

I giudici definiscono Mancuso «il classico uomo di paglia», un «prestanome» qualsiasi, per quanto efficiente, visto che convince in meno di un mese 32 persone a lasciare i propri terreni e rinunciare ai guadagni legati allo sfruttamento della cava. Soltanto uno dei proprietari prova a resistere, «ma la caduta “accidentale” di grossi massi nel suo fondicello a seguito dell’escavazione mediante esplosivo lo conduce a recedere dal suo atteggiamento».

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L’affare si chiude e le divergenze tra i boss rientrano: non si spara più ma si mettono in circolo milioni. Ne resta traccia nero su bianco negli assegni circolari emessi dal Banco di Santo Spirito in favore di Francesco Mancuso «e da questi girati agli imputati di quel processo», che portano i cognomi dell’élite ’ndranghetista: Piromalli, Mammoliti, De Stefano, Libri. In questo modo vengono distribuiti 760 milioni di lire: di altri 170 milioni non si riuscirà a dedurre la destinazione. 

Sono passati 45 anni da quella sentenza e dalla narrazione giudiziaria di un passaggio storico: la ’ndrangheta mette da parte la coppola (e le armi) in nome degli affari. Inizia una storia nuova. E in questa storia c’è l’affare della cava: operazione che trasforma un presunto prestanome in un boss capace di farsi eleggere consigliere comunale di Limbadi, da latitante, nel 1983. Attraverso la lente del pentito Bartolomeo Arena, 40 anni dopo, Francesco Mancuso è «il capostipite, diciamo il capo storico della famiglia, il fondatore della famiglia». Tutto fuorché un uomo di paglia: entrò nella cava prestanome e si fece capo.

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