‘Ndrangheta

«Non toccare i miei soldi, infame servo dello Stato», le minacce del clan Alvaro agli amministratori giudiziari dopo i sequestri

Intimidazioni e minacce convincono tre professionisti a rinunciare agli incarichi di gestione di una panetteria finita nel mirino delle indagini. Il racconto del loro terrore nella sentenza del processo Propaggine

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di Vincenzo Imperitura
1 aprile 2024
19:50

Territorio diverso, approccio diverso. Ma se la Locale romana agli ordini della diarchia Carzo-Alvaro sperimentava, nella Capitale, un nuovo modo di affrontare alleanze ed equilibri criminali, quando si trattava di gestire gli affari, la nuova cellula ‘ndranghetista varata dentro le mura Aureliane, si comportava seguendo il solito copione fatto di intimidazioni e minacce. Anche e soprattutto nei confronti degli amministratori giudiziari mandati “sul campo” a gestire parte dell’impero commerciale della cosca appena posto sotto sequestro. Come nel caso della panetteria “Briciole e delizie”, gestita fino a quel momento da Carmela Alvaro.

Il valzer dei controllori

I problemi iniziano subito, già nel giorno del sequestro preventivo disposto dal tribunale di Roma. Ed è subito chiaro che garantire il rispetto delle regole all’interno di quella panetteria così di moda non sarà un gioco facile. «La reazione all’intervento dello Stato – scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza con cui, in primo grado, hanno condannato capi e gregari della cosca – ebbe una portata così violenta che ben tre persone, preposte dall’amministratore giudiziario rinunciavano all’incarico perché attinte dalle minacce della Alvaro, che nella specie spendeva il nome del sodalizio».


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Tre rinunce quasi immediate dettate dal clima insostenibile che si respirava all’interno della panetteria. Il primo funzionario assunto dall’amministrazione giudiziaria come preposto al controllo degli incassi dura meno di 48 ore. È lui stesso a raccontarlo agli inquirenti nel corso di un interrogatorio in cui descrive, oltre alle minacce, anche il suo, momentaneo sequestro. «Nel momento del mio ingresso nel locale – racconta – i due iniziavano a dare in escandescenza con urla e atteggiamenti aggressivi. Continuavano a inveire contro di me, ad un certo punto Carmela Alvaro, con tono imperativo, mi diceva testualmente “chiama quello stronzo di merda dell’amministratore giudiziario, di venire qui subito”. Non sono uscito dal locale perché sono rimasto interdetto dall’atteggiamento e dalle minacce». Una paura così profonda che ha costretto lo stesso amministratore a sollevare dall’incarico il suo addetto spostandolo in un altro esercizio finito sotto sequestro.

Passano pochi giorni e, il 13 giugno del 2022, viene nominato un altro addetto ai controlli che dovrebbe, almeno in teoria, verificare gli incassi del locale. Ma il copione è sempre lo stesso e questo nuovo incarico non dura nemmeno 24 ore. «La ricostruzione dei fatti – scrivono i giudici – è per certi versi inquietante».

«Sin dal primo momento – dichiara a sommarie informazioni l’addetto nominato dall’amministratore giudiziario – la signora Alvaro quando mi ha visto che mi mettevo alla casa mi aggrediva verbalmente dicendomi subito “non devi toccare i miei soldi, sei un infame servo dello Stato”. Dopo avere staccato dal lavoro ho telefonato alla mia compagna – racconta ancora – per raccontarle cosa fosse successo. Percepita la preoccupazione della mia compagna ho detto che preferivo non andare più a lavorare in quell’attività commerciale». Ma le disavventure per il professionista incaricato di sorvegliare l’attività degli Alvaro non sono finite. La sera di ritorno dal lavoro, quando ancora alla panetteria non sanno della sua rinuncia, qualcuno lo raggiunge sotto casa: «La stessa sera ho ricevuto presso la mia abitazione la visita di una persona che faceva presente che l’attività era di proprietà del clan Alvaro e se ero consapevole delle responsabilità e dei rischi che potevo affrontare assumendo tale incarico».

Per il terzo funzionario spedito a controllare gli incassi del negozio poi, visto l’andazzo delle settimane precedenti, non sono state necessarie neanche minacce dirette. «Ho lasciato l’incarico perché ho avuto paura per l’incolumità mia e dei miei familiari, non per avere ricevuto minacce dirette ma per l’ambiente».

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