Ventisette anni fa l’omicidio Di Matteo, il bambino sciolto nell’acido che sconfisse Cosa Nostra
I mafiosi rapirono il piccolo Giuseppe con l’inganno. Dopo 779 giorni di prigionia l’ordine di Brusca: «Alliberateve de lu cagnuleddu». Il dolore di chi c’era: «Disse “papà, amore mio”». La sua morte confermò l’assenza di codici d’onore delle mafie, anche in Calabria
«Alliberateve de lu cagnuleddu». È l’11 gennaio del 1996. Giovanni Brusca, detto “u verru”, ha appena ricevuto la notizia della sua condanna all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo. Lui, accusato di numerosi fatti di sangue, emette la sua ennesima sentenza di morte: bisogna uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo. Non c’è appello che tenga, né qualcuno che lo faccia ragionare. Avverrà così uno dei delitti più efferati della storia di Cosa Nostra, ma probabilmente anche l’inizio vero dello sgretolamento di quella che fu l’organizzazione criminale più potente d’Italia.
Chi era Giuseppe Di Matteo
Giuseppe Di Matteo è il figlio di Santino Di Matteo, uomo d’onore appartenente alla famiglia di Altofonte, vicina ai corleonesi. Il 4 giugno del 1993 Santino viene arrestato e ben presto decide di collaborare con la giustizia: davanti ai pm Giuseppe Pignatone e Francesco Lo Voi si accusa di oltre dieci omicidi e confessa di aver partecipato anche alla strage di Capaci. Le parole del nuovo “pentito” scuotono Cosa Nostra dalle fondamenta. È a conoscenza di segreti inconfessabili, bisogna fermarlo. Ci provano in tutti i modi i mafiosi palermitani, senza successo. Così arriva l’ultimo tentativo. Quello per il quale sono certi che il risultato arriverà: rapire il piccolo Giuseppe, figlio di Santino e tappargli la bocca per sempre.
«Papà, amore mio»: il giorno del sequestro
Il 23 novembre del 1993, un gruppo di malavitosi entra nel maneggio di Piana degli albanesi frequentato dal ragazzino. Tutti indossano una finta casacca della Dia. Sono le parole del pentito Gaspare Spatuzza (colui che uccise don Pino Puglisi, ndr) a rivelare con gelida lucidità le fasi del rapimento: «Siamo entrati in questo maneggio, avevamo le casacche della polizia, nessuno di noi conosceva questo bambino, quindi abbiamo chiesto, chiamavamo “Giuseppe, Giuseppe”. Il bambino dice: “Io sono”. Ci siamo avvicinati e gli abbiamo detto: “Dobbiamo andare da papà” e sto bambino si è fatto avanti, perché rappresentavamo per lui la sua salvezza. Lo abbiamo portato in macchina e siamo usciti, gli abbiamo detto che si doveva nascondere bene, perché "siamo qui per te, per tuo papà". E questo bambino ha detto: "Ah, papà mio...". E io gli ho risposto: "Sei contento che devi andare da papà?". "Sì, papà mio, amore mio", una frase così toccante che sul momento non ci fai caso, poi però».
Giuseppe non vede il papà da cinque mesi. È per questo che la promessa di rivederlo lo fa emozionare. «Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi», ammette ancora Spatuzza.
Solo il 14 dicembre 1993, la madre del piccolo Giuseppe Di Matteo decide di presentarsi davanti alle forze dell’ordine per denunciarne la scomparsa. Prima si tenta di risolvere la questione senza coinvolgere lo Stato. È l’inizio di una frenetica attività di ricerca del covo dove viene tenuto ostaggio il ragazzino.
779 giorni di prigionia
Li conta uno per uno i giorni trascorsi nelle diverse prigioni, il piccolo Giuseppe. Il volto di quei finti poliziotti lo ricorda come fosse impresso in una sorta di attimo eterno. Quello stesso che, in un colpo solo, gli porta via il desiderio accarezzato di rivedere il padre ed anche la libertà. Il bambino viene spostato più volte: prima a Palermo, poi ad Agrigento, infine a Trapani e poi nell’ultimo luogo che lo ha visto vivo, San Giuseppe Jato, mandamento in mano al boss Giovanni Brusca. Nelle campagne di contrada Giambascio, Giuseppe trascorre gli ultimi mesi di vita, sebbene ridotto ad una larva umana.
La decisione di liberarsi di Giuseppe
Nella sub-cultura mafiosa, c’è da sempre l’idea (errata) che i bambini non debbano essere uccisi. Così sembra anche per Giuseppe Di Matteo. Tutto lascia presagire che nulla gli verrà fatto fino a quando, almeno, non avrà compiuto la maggiore età. Nulla di più falso. Arriva la giornata dell’11 gennaio 1996. Giovanni Brusca apprende della sua condanna all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo. Santino Di Matteo con quella vicenda c’entra poco. Ma la rabbia e la furia omicida di Brusca esplodono in un attimo. Sente crescere la pressione addosso e sa che Di Matteo sta ancora collaborando. Anzi, ha addirittura lasciato la località protetta per correre in Sicilia a cercare il figlio. Da qui la decisione senza appello: «Alliberateve de lu cagnuleddu».
«Il bambino girava gli occhi. Gli dissi: “Tuo papà ha fatto il cornuto”»
Giuseppe Di Matteo non si rende neppure conto di stare andando incontro alla morte. A raccontarlo è Vincenzo Chiodo, uno degli assassini. Le sue parole gelano il sangue, ma riescono a narrare come meglio non si potrebbe quegli attimi di follia: «Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muovesse. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ (…) il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi. (…) io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. (…) io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire».
Giuseppe Di Matteo, il bambino che sconfisse la mafia
Per questo efferato delitto sono stati condannati all’ergastolo: Giovanni Brusca (oggi non più in carcere per i benefici della legge sui collaboratori), Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro (ancora oggi latitante), Giuseppe Graviano, Salvatore Benigno, Francesco Giuliano e Luigi Giacalone. Monticciolo è stato condannato a 20 anni di carcere, Enzo Brusca a 30 anni (anche per altri fatti di sangue), Vincenzo Chiodo a 21 anni e Gaspare Spatuzza a 12 anni.
Nulla è rimasto del corpo di Giuseppe Di Matteo, i cui resti si sono dissolti nell’acido utilizzato per farne sparire le tracce. Ma la sua morte ha prodotto un effetto che probabilmente neppure i boss sanguinari che l’hanno voluta avrebbero potuto immaginare. D’improvviso, aver agito con una tale crudeltà su un bambino che aveva la sola “colpa” di essere figlio di un collaboratore di giustizia, ha fatto cadere per sempre quel finto codice d’onore di cui, ancora oggi, qualcuno parla, ma che le mafie non hanno mai davvero avuto. Perché di onorevole, nell’essere mafiosi, non c’è proprio nulla. Ecco perché il sacrificio estremo di Giuseppe Di Matteo ha rappresentato una delle più cocenti sconfitte per Cosa Nostra. Anzi, di più, probabilmente è stato – insieme alle stragi di Capaci e Via D’Amelio – il tassello che ne ha decretato la fine. Quantomeno ai livelli di potere criminale del ventennio compreso tra gli anni ’70 e ’90. La decisione di porre fine alla vita del piccolo Giuseppe è servita a far cadere quel velo d’ipocrisia dietro cui qualcuno continuava a nascondersi, affermando che sì, la mafia è sporca, brutta e cattiva, ma in fondo non tocca i bambini. Nulla di più falso. A confermarlo è il report di Libera di qualche anno addietro, con cui è stato certificato che sono almeno 108 i bambini uccisi a causa delle mafie, da Nord a Sud dell’Italia. Che si sia trattato di omicidi con colpi d’arma da fuoco, esplosioni, proiettili vaganti o, come nel caso di Giuseppe Di Matteo, sciolti nell’acido, poco conta. Sono tutte vittime innocenti di una guerra che non hanno mai deciso di combattere.
Le bare bianche delle mafie
Sono tante le storie dei bambini o dei ragazzini uccise per mano mafiosa. Basti pensare, per citarne solo alcune, a Caterina Nencioni, di appena 53 giorni, uccisa con la sorella Nadia di 8 anni, nell’esplosione di via dei Georgofili a Firenze, nel 1993. O Valentina Guarino, uccisa a soli sei mesi, nel 1991, da una sventagliata di proiettili, mentre si trovava in braccio alla madre. Un interessante volume “Al posto sbagliato”, del giornalista Bruno Palermo, mette in fila i fatti riguardanti i bambini uccisi dalla mafia.
Le vittime calabresi
Quella linea rossa che congiunge le piccole vittime innocenti di mafia si riannoda anche in Calabria, nel 1974. A Seminara è in corso la faida tra i Gioffrè e i Pellegrino. Giuseppe Bruno, di appena 18 mesi, è sulle spalle del padre. Passano da una scala esterna dell’abitazione ed un killer spara un colpo di lupara. Il padre viene colpito di striscio (sarà ucciso dopo poco tempo). Giuseppe muore sul colpo.
Il 12 dicembre del 1975, a San Giovanni di Sambatello (Reggio Calabria) una pioggia di proiettili colpisce l’A112 di proprietà di Sebastiano Utano. A guidare, però, è la moglie dell’uomo. Sul sedile posteriore c’è la figlia, Pinuccia. I tre stanno rientrando da Scilla. Un’auto si pone in mezzo alla strada, proprio all’ingresso della frazione reggina. Sono gli anni della prima guerra di ‘Ndrangheta e, secondo gli investigatori, Sebastiano Utano è persona vicina a don Mico Tripodo, all’epoca uno dei capi incontrastati delle cosche reggine in guerra con i De Stefano. Dentro l’auto crivellata di colpi, Sebastiano Utano ne uscirà illeso. La moglie alla guida gravemente ferita, mentre la piccola Pinuccia arriverà in ospedale già cadavere.
In epoca più recente, siamo nel 1994, Nicholas Green, americano di appena 7 anni, viene ucciso durante un tentativo di rapina sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria. La sua morte fa compiere un mezzo miracolo: anche in Calabria s’inizia a parlare in modo serio di donazione degli organi, dopo la decisione dei genitori del piccolo.
Il 25 giugno del 2009, invece, a Crotone, viene ucciso Dodò Gabriele. Il padre lo porta insieme a lui a vedere una partita di calcetto. Partono diversi colpi di pistola che non lasciano scampo al piccolo Dodò, vittima innocente e inconsapevole. Così come lo è anche Cocò Campolongo, ucciso a Cassano allo Ionio nel gennaio 2014. Il suo corpo viene trovato carbonizzato all’interno di una Fiat Punto, assieme a quello del nonno e della compagna. C’è lo spaccio di droga dietro questo ennesimo efferato delitto.
Come per Giuseppe Di Matteo, dunque, anche le vicende calabresi raccontano una verità ormai incontrovertibile: non esistono codici d’onore per la mafia. Non esiste regola che abbia il minimo requisito della moralità. E neppure i bambini non sono esenti da questa barbarie.