Docente al Liceo classico Campanella di Reggio, di lei si dice che stesse in cattedra come se fosse in scena. La sua prima raccolta di poesie risale al 1962 e poté vantare rapporti con Pavese e Berto
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La donna della quale voglio raccontarvi ha vissuto tra le tenebre e il sogno, con i desideri legati alla sua terra d’origine, Reggio Calabria, nella quale fu indiscussa protagonista per oltre quarant’anni nell’ambito del Circolo Culturale “Rhegium Julii”, scavando nell’esistenza con i suoi eleganti versi.
Sto parlando di Gilda Trisolini (1924-1996), insegnante al Liceo Classico Tommaso Campanella - laureata, giovanissima, in Lettere e poi in Filosofia - donna in apparenza dalla vita semplice.
La terra è un levriero in fuga e luci ed ombre hanno pari dominio del mondo. Ma noi forza di uomini adusi alla tenebra e al sogno possiamo su questa terra vivere liberi di noi stessi e inviolati. In una terra martoriata dalla paura della violenza, dalla guerra di mafia, si leva il canto di speranza della poetessa.
Ho sognato le vette di Aspromonte / e l’armonia celeste della sera / che precede il silenzio. / I colori d’intorno a quelle cime / erano spenti, immersi / nel gran giuoco lento delle ombre. / I monti mi sorrisero dall’alto / come giganti buoni. / Tenerezza mi prese di quel luogo / essere tanto forti nella gracile tenebra. / M’apparvero smagriti/ trasognati di nebbia / come volti di certi desideri / circonfusi / dalla carezza lunga senza mani / di una semplice forza / che li pianta / solidi / tra il gran fluttuare incerto dei vapori / che il cielo ha colorato / a piene mani.
È poetessa intensa, dall’anima in perenne conflitto, come confesserà ne La vita divisa, antologia poetica, dopo il lungo silenzio che la separa dall’esordio del 1962 con Le mura cadono, la prima raccolta di poesie con prefazione di Carlo Betocchi, per il quale ottiene la Medaglia d’oro al Premio Villa San Giovanni, a cui seguirono Un provvisorio confine nel 1964, Il disagio della parola nel 1965, e Imitazione di gioia nel 1970. L’antologia, del 1992, è dedicata allo stesso Betocchi, con il quale intratteneva una fitta corrispondenza così come con Seminara e Zappone (per la morte di quest’ultimo terrà, il 16 febbraio del 1979, un discorso commemorativo a Palmi). Non dimentichiamo, inoltre, i suoi rapporti con Cesare Pavese e Giuseppe Berto, oltre che la sua passione per Proust e Auden.
Dalla lettura delle poesie della Trisolini ebbi prima, come in un bagliore, l’idea di un lontano rivivere della lucana, e da me ammiratissima, Isabella di Morra. Così scrive di lei, Carlo Betocchi. L’acconsentimento al tempo, che è il dolore, si riscatta nella libertà dell’eterno. Ma Betocchi sente qualcosa di più, come se la poesia della Trisolini fosse frutto di una silenziosa, segreta, pressoché inspiegabile educazione. Ma cos’è questa vita segreta? e chi è veramente Gilda? Perché questa doppia identità, questa dicotomia esistenziale, questa vita divisa fra luci e ombre? Il fil rouge potrebbe essere proprio Gilda, il nome che assume. È il nome della madre, persa quando era ancora in fasce. La madre sconosciuta e inseguita attraverso l’eco di un pianto che ci fa da battistrada, da faro, da luce nelle tenebre del cammino. Noi siamo simili nel volo / del pensiero ad agili rondini cui fu stroncata l’ala.
La Trisolini, raccontano che a scuola stesse in cattedra come se fosse in scena; faceva lezione come se recitasse, e, durante alcune pause, chiedeva agli alunni cosa ne pensassero. Un confronto necessario, per lei. Vitale.
E allora, la poetica di Gilda si può risolvere nella ricerca, fra le opposizioni, di una sintesi armonica mediante la parola, parola mi costi dolori… Anch’io sulla scena recito e rammemoro un cigno fermo sopra una riva, vanamente maestoso del suo affanno in tanto tempo tramutato in canto. Ma non è un canto sgraziato come quello del cigno, la poesia di Gilda. No. I suoi versi ricamano sulla sua ferita, l’alto ricamo di vene / alla carne recalcitranti… la ricerca della verità introvabile nel mistero della morte.
Gilda trascende sé stessa, scendendo fin nelle radici conficcate nella terra, ma che riescono a risalire alla luce del sole, come quelle degli alberi giganti della via Marina. Non so della tua vita, ma la mia una discesa infinita scorge.
Noi siamo scesi con te, Gilda. Senza perderci.