La proposta di Valditara sembra muoversi più sul terreno della costruzione identitaria che su quello della formazione critica. Ma se la scuola ha il compito di formare cittadini consapevoli, capaci di dialogo e di pensiero critico, allora ha bisogno di una storia pluralista, inclusiva, globale
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Inizia da oggi la collaborazione di un giovane calabrese, Francesco Ferrise, colpito da una dura forma di distrofia. Laureato, autore di un libro sull’argomento, nonostante le gravi difficoltà a muoversi e ad agire, è attivo nel sociale e promotore di diverse iniziative sulle disabilità.
La recente affermazione, attribuita al ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, secondo cui l’insegnamento della storia dovrebbe essere riorientato per concentrarsi sull’eredità dell’Occidente e sulla Bibbia come testo fondativo della civiltà europea, ha acceso un intenso dibattito nel mondo accademico, politico e scolastico. L’idea, presentata come una necessaria “messa a fuoco” delle radici culturali degli studenti, in realtà solleva interrogativi ben più profondi su cosa debba essere oggi la scuola, e soprattutto la storia come disciplina formativa.
Dietro la proposta, infatti, sembra emergere una concezione della storia che privilegia una narrazione identitaria, compatta, lineare, orientata più alla legittimazione di un’idea di Europa che alla comprensione critica dei processi storici. Una semplificazione che finisce per cancellare la pluralità, le interconnessioni e le contraddizioni che costituiscono la vera trama del passato.
Partiamo dal presupposto più evidente: l’Occidente non si è sviluppato in un vuoto. La sua storia è il risultato di influenze, scambi, conflitti, appropriazioni e rielaborazioni che coinvolgono l’intero pianeta. Le scienze matematiche e astronomiche arrivate dall’Oriente, la medicina e la filosofia arabe, le tecniche agricole portate dall’Africa, la trasmissione del pensiero greco attraverso la mediazione islamica: tutto questo è parte integrante della civiltà europea.
Ignorare tali connessioni significa proporre una storia amputata, incapace di spiegare la complessità del mondo contemporaneo. La narrativa che mette al centro esclusivamente l’Occidente finisce per naturalizzare ciò che è invece il frutto di un dialogo globale di lunghissima durata.
La Bibbia come fondamento unico è una lettura parziale ,certo, ha avuto un peso fondamentale nella costruzione della cultura europea. Ma non è l’unica radice, né può essere presentata come l’elemento che “spiega” da solo la storia dell’Europa. La nostra identità culturale è un intreccio di tradizioni: quella giudaico-cristiana, quella greca, quella latina, quella illuministica e laica, quella scientifica moderna.
Ridurre il quadro alla sola dimensione biblica significa oscurare: il contributo del pensiero razionalista e filosofico; il ruolo del diritto romano, ancora oggi alla base dei sistemi giuridici europei; il valore della laicizzazione dell’età moderna e delle lotte per la libertà di pensiero; l’impatto rivoluzionario della scienza dal XVI secolo in poi.
Una storia che si fonda su un solo asse simbolico rischia di diventare uno strumento di omologazione culturale più che di conoscenza.
L’idea che gli studenti possano comprendere meglio il mondo concentrandosi sulle “radici occidentali” appare poco convincente sul piano pedagogico. Le aule scolastiche sono oggi abitate da realtà plurali: studenti con storie familiari, culturali e religiose differenti. Una didattica che restringe lo sguardo rischia di escludere, anziché includere, parte della loro esperienza.
Inoltre, viviamo in un contesto globalizzato in cui le questioni geopolitiche, economiche, sociali richiedono strumenti interpretativi ampi, non un orizzonte ristretto al solo patrimonio occidentale. Comprendere fenomeni come la decolonizzazione, la globalizzazione economica, le migrazioni, le tensioni tra potenze globali non è possibile senza uno studio della storia extraeuropea.
Una scuola che si chiude in un racconto autoreferenziale forma cittadini meno preparati, meno critici, meno consapevoli.
La proposta di Valditara sembra muoversi più sul terreno della costruzione identitaria che su quello della formazione critica. La scuola viene presentata come il luogo in cui trasmettere valori e tradizioni condivise, un ruolo certamente importante, ma che non può schiacciare la funzione primaria dell’istruzione: insegnare a pensare.
La storia, per sua natura, non è mai un racconto univoco. È un intreccio di interpretazioni, di prospettive, di domande. Una storia che si limita a confermare ciò che già crediamo di sapere diventa uno strumento di conservazione, non di emancipazione. Ed è proprio questa la grande lacuna di una visione che vorrebbe restringere l’orizzonte della disciplina: la rinuncia alla pluralità come valore educativo.
In un’epoca segnata dalla velocità dell’informazione, dalla circolazione globale delle idee e dalla crisi delle vecchie certezze, la scuola ha bisogno di ampliare gli strumenti cognitivi degli studenti, non di ridurli. C’è bisogno di spiegare come le civiltà si siano intrecciate, come la storia sia il frutto di processi non lineari, come la cultura europea sia stata da sempre in dialogo – e spesso in conflitto – con altre culture.
Il mondo non si legge più attraverso confini rigidi: lo dimostrano l’economia digitale, la scienza internazionale, le questioni climatiche, la geopolitica contemporanea. Una visione della storia ancorata esclusivamente all’Occidente rischia di essere, più che antiquata, inefficace per comprendere il presente.
La discussione aperta dalle indicazioni di Valditara non riguarda solo i contenuti scolastici, ma l’idea stessa di società che vogliamo costruire. Una storia ridotta all’Occidente e alla Bibbia è una storia che guarda più al passato che al futuro, più all’identità che alla conoscenza, più all’uniformità che alla complessità.
Se la scuola ha il compito di formare cittadini consapevoli, capaci di dialogo e di pensiero critico, allora ha bisogno di una storia pluralista, inclusiva, globale. Una storia che non teme la complessità, ma la abbraccia. Che non semplifica, ma spiega. Che non divide, ma connette.
In altre parole: una storia che rispecchi il mondo reale. Non una sua versione ridotta.

